(Newsletter Civiltà Cattolica, 26 giugno 2025)
Ottant’anni fa, il 26 giugno del 1945, veniva firmato lo Statuto dell’Onu a conclusione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Organizzazione Internazionale. Entrato in vigore il 24 ottobre successivo, dopo la ratifica da parte dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Cina, Francia, Unione Sovietica, Regno Unito e Stati Uniti) e della maggioranza degli altri Stati firmatari, quel testo rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per la comunità internazionale. Mai come in questi giorni, però, ci si chiede se l’Onu possa ancora «salvare le future generazioni dal flagello della guerra», «mantenere la pace e la sicurezza internazionale» – come si legge in quello statuto firmato 80 anni fa -, «conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie» e «sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli»[1] .
Ucraina, Iran, Gaza, Israele, ma anche Sudan e Myanmar. Sono continui gli appelli di Papa Leone XIV alla comunità internazionale affinché si mettano a tacere le armi e si riprenda la strada del dialogo. «Ogni membro della comunità internazionale ha una responsabilità morale: fermare la tragedia della guerra, prima che essa diventi una voragine irreparabile. Non esistono conflitti “lontani” quando la dignità umana è in gioco»[2]. Tuttavia, gli scenari di guerra attuali – che in alcuni casi durano da oltre tre anni – sembrano aver indebolito nei fatti quanto conseguito con la storica Conferenza di San Francisco del 1945.
Cosa sta succedendo alle Nazioni Unite? Lo abbiamo chiesto a Sandro Calvani, ex diplomatico senior e capo-missione delle Nazioni Unite e della Caritas in 135 paesi, Presidente del Consiglio Scientifico dell’Istituto Giuseppe Toniolo per il diritto Internazionale della Pace. Calvani è scrittore e docente in diverse università internazionali in Asia. Alcuni dati in questa intervista sono estratti dal libro di Muhammad Yunus, Sandro Calvani e Giuliano Rizzi, «Protopia, un nuovo impegno quotidiano per i beni comuni globali». Edizioni Città Nuova, 2025.
Sandro Calvani, qual è lo stato di salute delle Nazioni Unite oggi, nel 2025?
Le aspirazioni che 80 anni fa diedero vita al grande consenso mondiale per la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) sono ancora valide oggi e certamente sono più sentite e diffusamente popolari di quanto furono allora. Infatti solo 50 governi presero parte alla prima Conferenza delle Nazioni Unite nel 1945 a San Francisco che decise all’unanimità lo Statuto dell’Onu; nei loro paesi la conoscenza delle problematiche globali era allora molto scarsa a livello popolare. La popolazione mondiale era circa 2,3 miliardi di persone. Oggi invece 193 popoli membri delle Nazioni Unite e altri 50 popoli non ancora rappresentati hanno ben chiare le linee generali delle sfide di fronte alle quali si trova l’umanità. Secondo i sondaggi oltre 85% della popolazione mondiale conosce e sottoscrive i principi di pace e giustizia dello Statuto dell’Onu. La visione evolutiva nata dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale verso un miglior governo dei beni comuni globali, come la pace, il diritto internazionale, l’equa distribuzione delle risorse, la salute e l’educazione per tutti era quella giusta. Da quella visione i paesi membri hanno dato all’Onu in 80 anni, 3.600 mandati diversi.
Nel 2025, il bilancio complessivo è senza dubbio molto positivo, le luci brillanti sono molte di più delle zone d’ombra. Nonostante l’immensa complessità delle problematiche interconnesse del XXI secolo, gli ultimi otto decenni hanno registrato un’evoluzione radicale e multiforme nello sviluppo globale e nella riduzione della povertà per gli 8,2 miliardi di persone che abitano oggi sulla Terra, quasi quattro volte quelli che c’erano 80 anni fa. Questo percorso, segnato da ideologie mutevoli, iniziative innovative e sfide persistenti, ha visto il mondo passare da un’attenzione alla ricostruzione delle nazioni a una visione olistica di benessere sostenibile per tutti, in tutti i campi dove organi delle Nazioni Unite hanno creato un consenso e contribuito a identificare buone pratiche.
Negli ottant’anni i popoli del mondo si sono parlati e hanno collaborato in migliaia di iniziative sotto la bandiera azzurra dell’Onu, si è affermato in modo incontrovertibile un forte abbassamento delle frontiere, la radice della globalizzazione, trainata anche da progressi tecnologici e dall’apertura di grandi economie come Cina e India. Oggi circa il 60% degli esseri umani parla almeno una lingua straniera, il 43% sono bilingue e il 17% parla almeno tre lingue. Nel 1945, quelle percentuali erano dell’ordine di grandezza dello zero-virgola. L’integrazione nell’economia globale ha alimentato una crescita economica senza precedenti nella storia umana, portando per la prima volta a una forte riduzione del numero assoluto di persone che vivono in povertà estrema. Tuttavia, questo progresso è stato distribuito con forti disuguaglianze nel mondo intero, con diversi paesi, in particolare nell’Africa subsahariana, rimasti indietro. 80 anni fa l’aspettativa media di vita alla nascita era inferiore ai 47 anni, oggi è 73,2 anni, un aumento sbalorditivo di oltre 26 anni dell’aspettativa di vita media globale; essa riflette i progressi monumentali nella salute pubblica, nella medicina, nella nutrizione e nei servizi igienico-sanitari.
Queste statistiche sono prove impressionanti dei risultati della cooperazione internazionale guidata dall’Onu sulle questioni che più contano per la vita delle persone. Gli scrittori della Carta dell’Onu, alcuni dei quali erano rappresentanti di nazioni colonialiste che governavano il 70% della popolazione mondiale, avevano davanti a sé una povertà mondiale oltre il 50% dell’umanità; oggi essa è al 8,5%.
Nel campo della costruzione del mantenimento della pace, la Carta dell’Onu si basava su “pace e beni comuni per tutti”, mentre oggi invece quella speranza della pace sembra meno condivisa nel mondo rispetto al 1945, quando nacque il diritto internazionale. In diversi scenari la nuova dominante è “il mio paese viene prima”, un’idea stupida che si dovrebbe sciogliere al sole dell’evidenza dell’interdipendenza dei popoli. Per questo, siamo tutti in ansia per la “guerra mondiale a pezzi” – un’immagine originale coniata da papa Francesco nel 2014.
Nel XXI secolo, invece di un unico grande conflitto globale come le due guerre mondiali, viviamo molteplici crisi, conflitti regionali e focolai di violenza sparsi in diverse parti del mondo, tanto da configurare una sorta di guerra mondiale “frammentata”. La guerra a pezzi è caratterizzata da molteplicità di conflitti, interconnessione indiretta, diffusione capillare della violenza, forte rischio di espansione nelle regioni vicine. Secondo R. Kaplan, la paura popolare e i leader guerrieri creano una Terra desolata che potrebbe durare a lungo.
Secondo il Global Risks Report 2025, i conflitti armati tra stati rappresentano il principale rischio globale. Nel 2024 lo stesso rischio era all’ottavo posto. Ci sono meno conflitti nel Sud del mondo con meno vittime civili: secondo le stime del Peace Research Institute di Oslo le morti annuali dirette causate da conflitti armati sono scese da 500.000 negli anni ‘80 a circa 100.000 nel 2023, mentre la popolazione globale è raddoppiata. In Africa, le vittime civili sono diminuite del 70% rispetto ai picchi degli anni ’90. Ma nel 2025 i conflitti più gravi causano enormi impatti umanitari: l’invasione dell’Ucraina, l’escalation dei conflitti in Medio Oriente (in particolare Israele, Palestina, Iran e Yemen), i sanguinosi conflitti in Sudan, nel Sahel (Mali, Burkina Faso, Niger), e nel Myanmar. Inoltre, in Messico e in Colombia proseguono gravi conflitti interni e si registra una potenziale escalation tra India e Pakistan. L’aumento dei conflitti a livello globale ha un impatto devastante e senza precedenti sulle popolazioni civili, in particolare sui bambini. Le conseguenze economiche e politiche sono pesanti e contribuiscono a un clima di crescente instabilità internazionale.
Nonostante la visione condivisa sulle soluzioni di pace espressa ripetutamente dall’Assemblea delle Nazioni Unite, a causa dei veti incrociati di Russia e Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza Onu non è riuscito a fermare l’invasione russa dell’Ucraina, né le guerre in Medio Oriente, in Sudan e in Myanmar. Le operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite sono in declino, con una riduzione da oltre 100.000 peacekeeper nel 2016 a circa 68.000 nel 2024. Per questo, c’è chi punta il dito contro una certa inefficacia del sistema di mantenimento della pace dell’Onu, definendolo obsoleto. Eppure, tra il 1950 e il 2010 l’applicazione delle regole del diritto internazionale e delle risoluzioni Onu in conflitti gravi permise di fermare la guerra con un cessate il fuoco o un trattato di pace, salvando milioni di vite umane in decine di crisi gravi, per esempio in Corea (1950-1953), Suez (1956), Congo (1960-64), Cipro (1964), Mozambico (1979-92), i conflitti arabo-israeliani, la pace Israele-Giordania (1994), Iran-Iraq, Bosnia (1992-95), Kosovo (1998-99), Sierra Leone (1991-2002), Sudan (1983-2005), Liberia (1989-2003), Nagorno-Karabakh (1988-94), e diversi altri conflitti. Diversi accordi di cessate il fuoco e i trattati di pace sono risultati delle «costruzioni della pace a pezzi», che sono riusciti più volte a rammendare i gravi strappi della guerra.
Per volontà di pochi governi sovranisti e non certo per colpa dell’Onu, oggi, l’unilateralismo e il predominio delle considerazioni sulla sicurezza nazionale nelle agende politiche nazionaliste mettono a rischio la spesa nella sanità, l’istruzione e le infrastrutture per lo sviluppo e per l’aiuto ai migranti e ai rifugiati. Nel 2023, l’accelerazione della spesa militare per il nono anno consecutivo ha raggiunto un totale di 2.400 miliardi di dollari, con un forte aumento nel 2022-23. I primi cinque Paesi fanno il 61% del totale della spesa militare. Poiché i governi che hanno rafforzato le forze armate percepiscono che i vincoli multilaterali all’azione militare unilaterale sono più deboli, nei prossimi anni potrebbero verificarsi più casi di interventi militari transfrontalieri. L’aumento della sorveglianza statale sui cittadini e le restrizioni alle libertà individuali potrebbero diventare più comuni in nome della sicurezza nazionale. Le minacce percepite o reali provenienti da altri Paesi offrono inoltre ai governi l’opportunità di assumere il controllo della narrazione e di sopprimere le informazioni, confondendo le considerazioni di sicurezza autentiche con la convenienza politica di parte.
Dopo tre anni di conflitto in Ucraina, quasi due anni di guerra nella Striscia di Gaza e la recente escalation in Iran, l’Onu sembra ancora più impotente. C’è ancora la volontà politica da parte degli Stati di dare un senso a questo organismo? È possibile partire da queste crisi per lavorare ad una riforma delle Nazioni Unite? Cosa bisogna fare affinché si arrivi ad un organismo che riesca a mantenere le promesse fatte in quello statuto del 1945 oppure a pensarne di nuove?
Come in un condominio o in qualunque gioco di squadra, l’efficacia di ogni associazione di gruppi umani è maggiore della somma delle sue parti solo se ogni membro contribuisce con determinazione agli sforzi comuni e alle soluzioni decise in assemblea. Diverse potenze militari ed economiche mondiali hanno messo da parte il diritto internazionale e decidono da sole, spesso senza consultare la visione degli altri, in alcuni casi senza nemmeno consultare il loro parlamento e senza rispettare il diritto umanitario di guerra stabilito nel 1864. Allo stesso tempo fanno dell’Onu un capro espiatorio, scaricandogli tutte le colpe e smettendo di pagare i contributi obbligatori, che sono equivalenti alle spese condominiali di un condominio.
I leader guerrieri fomentano la paura della gente che cresce difronte a questioni complesse, rese confuse da una disinformazione pubblica intenzionale, attraverso i social network. Secondo lo storico R. Peckham, la paura popolare che spinge il nazionalismo non è una percezione genuina: essa è invece preordinata da leader guerrieri suprematisti che fabbricano paure che altrimenti la gente non avrebbe. La libera partecipazione popolare disinformata nella discussione di dispute internazionali complesse e quella dei leader dittatori o aspiranti tali fa sì che ognuno ritenga di potersene infischiare delle regole del diritto internazionale. Semplificando un po’, sarebbe come se si pretendesse di partecipare a una partita del campionato mondiale di calcio, infischiandosi delle regole che vietano il fuori gioco e l’invasione di campo, senza mai rispettare l’arbitro quando fischia un rigore o ordina un’espulsione, e facendo il tifo in modo aggressivo, magari sparando sui portieri.
Il primo passo per riparare questa distopia è dunque un soccorso urgente al diritto internazionale, chiedendo ai parlamenti di ristabilirne il potere preminente e invalicabile. È necessaria anche un’accelerazione del disarmo come si era iniziato a fare immediatamente dopo l’approvazione della Carta dell’Onu, un processo che fu proposto dal Mahatma Gandhi e che negli Stati Uniti era voluto unanimemente da democratici e repubblicani, ma fui poi abbandonato per la crisi in Corea e l’avvento della guerra fredda.
Le proposte di riforma dell’Onu (di cui abbiamo parlato con Sandro Calvani nel Quaderno 4152 de «La Civiltà Cattolica» del 2023, ndr) che hanno già ottenuto un vasto consenso dopo un decennio di consultazioni, potrebbero essere approvate e messe in pratica molto presto se vi fosse nei paesi membri una forte volontà popolare. La credibilità di un sistema Onu riformato sarebbe molto rafforzata se esso fosse corredato di una assemblea parlamentare eletta globale per migliorare il dialogo tra i popoli e contenere gli egoismi nazionalisti.
Oltre al rischio concreto per la pace mondiale, oggi assistiamo anche ad una crescente sfiducia dell’opinione pubblica e della politica verso gli organismi internazionali. Pensiamo alla Corte penale internazionale (e ai mandati di arresto contro Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin, entrambi disattesi, solo per fare qualche esempio eclatante), all’Oms (con l’abbandono degli Usa), all’Onu per le ragioni fin qui esposte, alle recenti accuse rivolte all’Unrwa e infine anche all’Unione Europea, che di fronte alla crisi ucraina si è riscoperta incerta e divisa. Perché gli organismi internazionali che per anni hanno rappresentato un luogo di coesione e cooperazione oggi sono così in crisi? Lei che per anni ne ha fatto parte ricoprendo ruoli apicali, cosa ne pensa?
Diverse accuse di inefficienza rivolta a organi dell’Onu e la conseguente sfiducia sono marcatamente infondate, incluse per esempio quelle relative a salari troppo alti e a bilanci esagerati. L’Onu spende ogni anno meno della polizia di New York e meno del 2% di quanto i paesi membri spendono in armamento. Nessun organo dell’Onu offre salari più alti di quelli delle agenzie di cooperazione internazionale dei paesi membri. L’imparzialità e la professionalità del personale degli organi umanitari dell’Onu viene accresciuta continuamente dall’alta formazione offerta dallo UN Staff College, dal monitoraggio dell’internal auditing e dai cosiddetti whistleblowers (diritto di denunce interne protette). Le selezioni del personale, sempre più esigenti e trasparenti, offrono un patrimonio di risorse umane apicali di grandissima esperienza e competenza. La stessa procedura non viene applicata a incarichi politici nell’Onu scelti esclusivamente dai paesi membri. L’opinione pubblica è fortemente influenzata da pochi scandali amplificati dai media. Tre o quattro scandali l’anno fanno più rumore del lavoro quotidiano di 195.000 miei ex-colleghi Onu che ogni giorno lavorano in 193 paesi con milioni di persone svantaggiate per ottenere quei risultati riferiti all’inizio di questa intervista.
Facendo un paragone con l’Italia, di fronte a pochi casi di malasanità, non possiamo abbassare la guardia, ma nemmeno dovremmo ridurre la stima, l’ammirazione e la gratitudine ai 243.000 medici in Italia i cui nomi sono sconosciuti alla cronaca, ma che salvano milioni di vite umane. Allo stesso modo nessuno si sognerebbe di “uscire dalla sanità” per protestare contro eventuali decisioni non condivise. L’atteggiamento corretto per ricostruire fiducia, invece di spargere sfiducia corrosiva, è quello di una partecipazione costruttiva e determinata. Anche un solo giovane aspirante collega in più che si candida in un concorso Onu può contribuire al mutilateralismo e al buon governo dei beni comuni globali più di un leader sovranista che urlando sbatte le scarpe su un seggio dell’Onu o che fa uscire il suo paese sbattendo la porta da un organo Onu che salva milioni di donne e bambini dalla fame o dalle malattie.
Per quanto riguarda le Corti Internazionali, alcune sono uno sviluppo recente dell’aspirazione dei paesi membri a una pace e una giustizia giusta. È inaudito non rispettare le sentenze delle Corti Internazionali dopo aver dedicato tempo per decenni ai negoziati per crearle in modo condiviso. Quando i Trattati internazionali che hanno istituito tali corti vengono ratificati dai parlamenti dei paesi firmatari, il loro contenuto diventa parte delle leggi nazionali. Non rispettarne la lettera d