Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza - Azione Cattolica Italiana

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Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza – trentadue poesie scritte da autori palestinesi a Gaza dopo il 7 ottobre 2023 – è un testo urgente e necessario. Urgente, perché a quasi due anni dall’inizio del nuovo conflitto a Gaza e con un bilancio inaccettabile di civili uccisi, il libro è una delle poche fonti di prima mano a nostra disposizione. Infatti, come ricorda Ilan Pappé nella prefazione “i giovani palestinesi ci hanno fornito una documentazione visiva di ciò che è accaduto a Gaza, luogo dal quale i giornalisti sono stati esclusi”.

Necessario, perché è impossibile cogliere il dolore, ma anche la speranza di un intero popolo in un futuro di libertà, senza ascoltare finalmente la voce dei palestinesi, per mettere fine a quella che i curatori Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti non esitano a definire “un’apartheid talmente radicata da essere esclusi anche dall’essenziale dimensione poetica”.

Gaza: disumanizzare per cancellare volti e storie

L’eliminazione del volto, della storia e della poesia del nemico è funzionale al processo di disumanizzazione, a sua volta mezzo di legittimazione di violenze e soprusi. Per questo, le poesie scritte a Gaza rappresentano la ribellione di un popolo alla morte e alla cancellazione della propria identità ed invitano, al contempo, il lettore non cedere all’ignoranza, che, si legge nell’introduzione: “partecipa a quelle dinamiche di sfruttamento e repressione cui sono costretti, giorno dopo giorno, i palestinesi superstiti”.

In una tensione crescente, avvertono i curatori, “prestiamo attenzione alle date dei testi: ci accorgeremo di come dall’inizio di questa ennesima guerra le parole si fanno man mano più essenziali, taglienti, calcinate”.

Le poesie raccontano la vita quotidiana in una dimensione mortifera. Essere madre a Gaza scrive, Ni’ma Hassan, non è essere come le altre madri, perché “Una madre a Gaza non dorme (…) E dopo che tutti si sono addormentati/ si erge come uno scudo di fronte alla morte” e “Una madre a Gaza non piange/ Raccoglie la paura, la rabbia e le preghiere nei suoi polmoni, e attende che finisca il rombo degli aerei, per liberare il respiro”.

Gaza. Foto Shutterstock

“Non c’è più tempo, quindi non indugiare nel ventre di tua madre…”

I versi ci parlano della dimensione del tempo sotto assedio. Sono bombe e droni a dettare i tempi della vita, portando con sé funerali mancati.  Dice Heba Abu Nada (morta il 20 ottobre 2023 a Khan Younis) “Non c’è tempo per grandi funerali e addii adeguati/Non c’è tempo: un razzo furioso sta arrivando/ Ci accontenteremo di un bacio veloce sulla fronte/ Di un addio rapido, aspettando la nuova morte/ Non c’è tempo per l’addio”. Ancora, Marwan Makhoul: “Non c’è più tempo, quindi non indugiare nel ventre di tua madre, figlio mio, affrettati a venire”. Le poesie ci rendono partecipi della cancellazione della memoria collettiva e personale di un intero popolo: “Le nostre foto di famiglia: un sacco di brandelli, un mucchio di cenere”.

La poesia come esigenza, non solo strumento per raccontare soprusi, perdite, deprivazioni e morte, ma anche testimonianza di un’umanità che vuole vivere. Afferma ancora Ilan Pappé: “la consapevolezza con cui questi giovani poeti affrontano la possibilità di morire ogni ora eguaglia la loro umanità, che rimane intatta anche se circondati da una carneficina e da una distruzione di inimmaginabile portata”.

La poesia restituisce voce a chi muore per un sacco di farina

Davanti alla lunga tragedia palestinese, ciò a cui assistiamo quotidianamente a Gaza non rappresenta che un ulteriore inaccettabile capitolo di sangue, che si consuma nel silenzio complice di una comunità internazionale ormai prigioniera della violenza. Per questo, la poesia restituisce voce ai bambini morti e mutilati, agli oppressi nelle carceri israeliane, agli assediati nelle loro stesse case, a quanti vengono uccisi in fila per un sacco di farina; “La bambina il cui padre è stato ucciso/mentre portava un sacco di farina/ sulla schiena/continuerà a gustare/il sangue di suo padre/ in ogni pane” scriveva a febbraio 2024 il ventenne Haidar al-Ghazali.

“Il loro grido è la mia voce” è un gesto di resistenza alla tentazione di voltarsi dall’altra parte, perché “se devo morire, che porti speranza, che sia una storia”, ha scritto Refaat Alareer – professore di letteratura inglese all’Università Islamica di Gaza – prima di morire il 6 dicembre 2023 ucciso da un “raid mirato israeliano” e i cui versi, ormai famosi in tutto il mondo, hanno ispirato anche la nascita di questa raccolta di poesie, urgenti e necessarie.

Recapiti
Mariantonietta D'Apolito