Professore ordinario di Diritto Amministrativo e Pubblico, Università degli Studi di Udine.
Il regionalismo come processo dinamico e cooperativo*
Nella sentenza n. 192/2024[1] la Corte costituzionale, dopo aver ristrutturato e articolato le questioni di legittimità sottopostele dalle Regioni ricorrenti, coglie l’occasione per elaborare, all’inizio del “Considerato in diritto”, un’ampia premessa “di indirizzo” avente a oggetto l’interpretazione dell’art. 116, c. 3 Cost.
Trattasi di un’operazione che presenta una poliedrica utilità. La più immediata è quella relativa alla stesura della decisione, nell’ambito della quale tale premessa costituisce il quadro generale di riferimento nel quale sussumere poi, in sede di scrutinio, le diverse disposizioni impugnate e inferirne così la conformità o la difformità rispetto al parametro costituzionale. Ma vi è anche un’utilità non riflessiva, meno strettamente connessa alle tecnicalità redazionali della sentenza: delimitare in modo chiaro il tracciato lungo il quale il regionalismo italiano può svilupparsi, attraverso la sua collocazione nell’alveo dei principi caratterizzanti la forma di Stato. A quest’ultimo riguardo, la Corte pare voler riportare a raziocinio un dibattito che, a volte, sembrava aver perso di vista il naturale inquadramento costituzionale del regionalismo differenziato (o, rectius, asimmetrico), ritenuto da taluni addirittura una fattispecie in sé incostituzionale.
Il messaggio della Corte è chiaro ed è rivolto non solo allo Stato e alle Regioni, ma, in generale, all’opinione pubblica (la cui attenzione non a caso era stata attratta da un comunicato stampa della Corte di una inusitata lunghezza) e si dipana attraverso un apparato argomentativo che mette in evidenza come il modello italiano di regionalismo partecipi in realtà di alcune tendenze ampiamente riscontrabili nel panorama degli ordinamenti composti nello spazio giuridico europeo.
La prima tendenza riguarda il superamento della rigida e uniforme divisione delle attribuzioni verso una distribuzione di tipo flessibile. Il modello classico di riparto, uniforme e rigido, si è dimostrato da tempo inadeguato, per diverse ragioni: talune di ordine strutturale, derivanti dall’esigenza di considerare ab origine le peculiarità delle comunità territoriali che compongono la comunità nazionale e di fornire loro garanzie adeguate; altre di ordine congiunturale e connesse alle sempre più pressanti e mutevoli esigenze dello Stato sociale e al conseguente dilatarsi dei compiti dell’apparato pubblico, che richiedono una flessibilità idonea ad affrontare le sfide della complessità, caratteristica ormai connaturata alla dimensione sociale, del governo e delle istituzioni, anche in considerazione dei processi di integrazione sovranazionale. Da qui una fisiologica esigenza di differenziazione, che si è da tempo affermata tra gli ordinamenti decentrati (Palermo, Parolari, 2023; D’Ignazio, Russo, 2018; Palermo, Kössler, 2017; Palermo, Zwilling, 2009; Pernthaler, 1998). Il dato comparato, peraltro, consente non solo di apprezzare, in prospettiva diacronica, l’idea del federalismo/regionalismo come processo (Friedrich, 1968). Esso attesta altresì, con riferimento alle opzioni in concreto invalse, come l’unità di un ordinamento non implichi affatto, deterministicamente, l’uniformità e la rigidità della disciplina delle forme di decentramento territoriale del potere al suo interno e come le differenze non si riverberino necessariamente in una violazione del principio di eguaglianza ma, anzi, siano diretta conseguenza della sua declinazione in senso sostanziale, nella misura in cui – nella logica del pluralismo territoriale – ben può darsi che le differenti comunità esprimano diversi indirizzi e priorità rispetto all’azione dei pubblici poteri.
Ciò premesso, nella medesima prospettiva si colloca anche l’art. 116, c. 3 Cost[2]. che, lungi dal rappresentare una “patologia costituzionale”, secondo la Corte è la clausola che «consente di superare l’uniformità nell’allocazione delle competenze al fine di valorizzare appieno le potenzialità insite nel regionalismo italiano» in armonia con la forma di Stato delineata dalla Costituzione e che, nella logica costituzionale, è da leggersi dunque «non già [come] un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale, ma [come] uno strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali»[3].
Una seconda tendenza che si coglie nella sentenza muove dalla ripartizione delle materie alla ripartizione delle funzioni. Come noto, guardando al modello federale europeo, quello tedesco si caratterizza da sempre per le rilevanti deroghe alla tecnica del riparto per blocchi di materie, tipica del modello federale classico (specificamente, di matrice anglosassone), a causa soprattutto del fenomeno dell’amministrazione federale indiretta. Questa tendenza “dissociativa” risulta confermata anche in altri ordinamenti decentrati europei, non solo nel senso che la legislazione viene attratta ancora di più nella sfera centrale, mentre l’amministrazione in quella degli enti territoriali minori (Bin, Ferrari, 2023), ma anche nel senso che il riparto può essere ricostruito attraverso criteri che ritagliano funzioni all’interno di singoli ambiti materiali. Ciò può avvenire sulla base di disposizioni che si prestano a essere interpretate estensivamente o di clausole elastiche[4] o semplicemente in virtù della debolezza semantica e, quindi, giuridico-precettiva, delle etichette utilizzate per definire le materie. Si tratta di un profilo di convergenza tra gli ordinamenti composti piuttosto ricorrente, che rispecchia il pluralismo dello Stato costituzionale e che trova la sua ragione pratica nel bisogno di contemperare le esigenze unitarie con la già ricordata dilatazione dei compiti dello Stato sociale; ciò determina la necessità di una disarticolazione del potere pubblico sul territorio funzionale a servire al meglio gli interessi delle comunità (Carrozza, 2003). Tale tendenza rinviene la sua base giuridica, in ultima istanza, nel principio di sussidiarietà, la cui forza omologante non può stupire se si considera che si tratta – come ricorda la Corte – di «un principio fondamentale dello spazio costituzionale europeo… [che] orienta la ripartizione delle competenze legislative tra l’Unione e gli Stati membri… ed è altresì riconosciuto dal diritto costituzionale di alcuni Stati membri»[5]. Ma che, quand’anche non formalizzato in una puntuale disposizione, si può considerare uno dei pilastri teorici della ripartizione delle competenze e un fondamentale principio organizzativo di ogni ordinamento composto (Häberle, 1994).
Coerentemente con l’impostazione sinteticamente richiamata, anche nell’ordinamento italiano il principio di sussidiarietà[6] – scrive la Corte – «esclude un modello astratto di attribuzione delle funzioni, ma richiede invece che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione», «attraverso un giudizio di adeguatezza, … [che] non può che riferirsi a specifiche e ben determinate funzioni [legislative e/o amministrative] e non può riguardare intere materie»[7]. Da qui, sul piano generale, la necessità che la richiesta regionale di trasferimento della funzione abbia una ragionevole giustificazione e sia supportata da un’adeguata istruttoria; sul piano delle disposizioni scrutinate, la caducazione di quelle che si riferivano al trasferimento di materie o ambiti di materie, anziché di specfiche funzioni, nonché di quella che non prevedeva che l’inziativa regionale di attuazione della differenziazione fosse giustificata in base al principio di sussidiarietà[8].
L’art. 116, c. 3 Cost. va dunque letto non nella classica prospettiva del riparto delle attribuzioni (specie legislative) che definisce o pretende di definire sia una fonte di produzione di norme primarie, sia – e con un certo grado di oggettività – l’intero ambito materiale di ciascuna fonte così individuata, ma come «una clausola generale di flessibilità che consente a ciascuna regione di chiedere di derogare all’ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione»[9]. Tale clausola di flessibilità è espressione del principio di sussidiarietà e, proprio per questo, essa va intesa e attuata «ex parte populi»[10].
La terza tendenza che caratterizza gli Stati composti e che si coglie chiaramente nella sentenza è una conseguenza delle prime due sopra analizzate, ovvero la necessità che gli ordinamenti composti contemplino strumenti compensativi di cooperazione per accompagnare il meccanismo della sussidiarietà, consentendo ai governi decentrati di incidere sui processi decisionali centrali. In questa prospettiva il ruolo delle Camere rappresentative degli enti territoriali rimane un aspetto giuridico-costituzionale nevralgico e molto delicato nella teorica dei sistemi composti (Luther, Passaglia, Tarchi, 2006).
Nella sentenza n. 192 i riferimenti alla cooperazione sono molteplici e multiformi.
Innanzitutto nella “premessa” del Considerato in diritto[11], in cui la Corte chiarisce come la cooperazione (verticale e orizzontale) è la dimensione nella quale deve essere necessariamente calato il regionalismo italiano, al fine di presidiare i principi di solidarietà, di unità giuridica ed economica, di eguaglianza nel godimento dei diritti, di effettiva garanzia dei LEP, di coesione sociale e di unità nazionale, ovvero, in sintesi, i tratti caratterizzanti la forma di Stato italiana. Ulteriori riferimenti sono poi contenuti nella parte in cui la sentenza si diffonde sulle censure concernenti il principio di leale collaborazione, ritenendole infondate[12]. Nello sviluppo delle argomentazioni è interessante notare – per la parte che qui interessa – come la Corte metta in evidenza, nelle disposizioni impugnate, il corretto utilizzo dei moduli cooperativi, sia nella declinazione bilaterale («L’art. 116, terzo comma, Cost. costruisce il procedimento di differenziazione come un procedimento bilaterale»[13]), sia nella dimensione multilaterale, attraverso il coinvolgimento delle Conferenze («il legislatore ha scelto di prevedere comunque una partecipazione delle altre autonomie territoriali: la Conferenza Stato-regioni è informata fin dal principio della iniziativa di differenziazione… e la Conferenza unificata è chiamata ad esprimere un parere sullo schema di intesa preliminare…»[14]). Un ulteriore riferimento alla cooperazione si trova, infine, nella parte della sentenza riguardante i profili finanziari, laddove la Corte richiama l’esigenza di un «modello di federalismo fiscale ‘cooperativo’»[15].
In sintesi, dall’intera trama della sentenza si evince che la cooperazione non è solo meramente o astrattamente utile, ma è necessaria e imprescindibile per far funzionare concretamente l’intero impianto dello Stato regionale, compresa la clausola di flessibilità di cui all’art. 116, c. 3 Cost.
Naturalmente la Corte ragiona de iure condito e, quindi, sulla base degli schemi che governano il regionalismo cooperativo per come sinora inveratisi nel nostro ordinamento. Sul punto sono note le problematiche relative all’operatività del principio di leale collaborazione nel procedimento legislativo[16]; così come non si ignorano le criticità inerenti al sistema delle Conferenze in quanto inteso come mera garanzia procedimentale dell’autonomia territoriale (Carrozza, 1989), peraltro privo di base costituzionale e oggetto di una disciplina che ha contribuito a rendere tali organismi più apparati burocratico-amministrativi che sede di confronto e decisione sul piano politico (Dell’Atti, 2019; Caruso, 2021).
Appare tuttavia interessante l’enfasi comunque posta nella sentenza sul regionalismo cooperativo, per ciò che essa può sottendere nell’ottica del contributo della Corte al consolidamento del modello italiano di Stato composto, attraverso il messaggio che essa rivolge agli attori istituzionali. Nella decisione si coglie, infatti, innanzitutto una riaffermazione del rilievo costituzionale del principio cooperativo, che impone al legislatore statale di prevedere l’adozione di strumenti di raccordo e dunque il coinvolgimento delle Conferenze nelle ipotesi di interferenza tra ambiti di competenza[17]; in secondo luogo, un invito implicito ai protagonisti della cooperazione a interpretare i rispettivi ruoli non come meri adempimenti formali, ma utilizzando le sedi e gli strumenti a loro disposizione per approfondire la conoscenza reciproca, confrontarsi in modo autentico e condividere le scelte anche sul piano sostanziale[18].
Posto che l’art. 116, c. 3 Cost. va ricondotto alla logica costituzionale che poggia sui capisaldi della forma di Stato (innanzitutto, sui principi di solidarietà, eguaglianza, unità), la Corte analizza quindi, attraverso lo scrutinio delle disposizioni impugnate, come il regionalismo differenziato potrebbe concretizzarsi. Le riflessioni che seguono si concentrano, in particolare, su due moniti che la Corte rivolge a Stato e Regioni e che paiono contrappesi necessari per assicurare soluzioni asimmetriche conformi a Costituzione: garantire l’eguaglianza nel godimento dei diritti e il buon governo delle risorse pubbliche. Ciò significa, nella sistematica della sentenza, soffermarsi (2) sulle questioni riguardanti i LEP e relativi costi e fabbisogni standard e (3) sulle questioni in materia finanziaria connesse alle prime.
Un gruppo di questioni affrontate nella decisione in commento riguarda la legittimità dell’art. 3, c. 3 della l. n. 86/2024, che prevede che la determinazione dei LEP avvenga non in tutte le materie devolvibili ai sensi dell’art. 116, c. 3 Cost., ma solo in quelle ivi elencate[19], nonché la legittimità di altre disposizioni[20] che, secondo la prospettazione delle Regioni ricorrenti, subordinano il conferimento della maggiore autonomia alla mera determinazione dei LEP, senza richiedere la loro concreta garanzia.
La circostanza fornisce alla Corte l’occasione per ritornare sul tema dei LEP, mettendone meglio a fuoco (2.1) la natura, (2.2) la copertura finanziaria e il modo per valutarla, (2.3) l’intrinseca dinamicità.
2.1. Sulla necessità di determinare i LEP, oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. m Cost., la giurisprudenza costituzionale si era già infatti soffermata per richiamare espressamente il legislatore statale a intervenire, superando un perdurante inadempimento che «rappresenta un ostacolo non solo alla piena attuazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, ma anche al pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti sociali»[21].
La sottolineatura della Corte, ripresa sostanzialmente nella sentenza in commento, merita attenzione: in essa si comprende chiaramente come la necessità di determinare i LEP sia questione innanzitutto pertinente ai rapporti tra Stato-apparato e Stato-comunità, tra potere pubblico e individuo. Rispetto ad essa l’individuazione di quale sia il livello di governo chiamato a erogare la prestazione è un posterius, in quanto strumentale ad assicurare il livello stabilito (dallo Stato) a garanzia del diritto. In altri termini, i LEP vanno definiti innanzitutto come elementi qualificanti la forma di Stato sociale; i loro riflessi sulle dinamiche della forma di Stato regionale dipendono dall’ambito materiale e dalla funzione considerati, che individueranno il soggetto erogatore e garante della prestazione (lo Stato, la Regione o l’ente locale)[22].
In questa occasione, peraltro, la Corte si sofferma su un aspetto ulteriore e importante per definire con chiarezza la natura dei LEP e il loro rapporto con i vincoli di bilancio: la distinzione tra LEP e contenuto minimo dei diritti (Torretta, 2022; Antonini, 2021). Mentre quest’ultimo «è un limite derivante dalla Costituzione e va garantito da questa Corte, anche nei confronti della legge statale, a prescindere da considerazioni di ordine finanziario», poiché è «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione»[23], invece «i LEP sono un vincolo posto dal legislatore statale, tenendo conto delle risorse disponibili, e rivolto essenzialmente al legislatore regionale e alla pubblica amministrazione; la loro determinazione origina, poi, il dovere dello stesso Stato di garantirne il finanziamento»[24]. In altri termini, «i LEP rappresentano… il frutto di un bilanciamento, da operare tenendo conto delle risorse disponibili» e sono quindi il frutto della «discrezionalità politica del legislatore», da esercitarsi «secondo canoni di ragionevolezza»[25].
Ciò premesso e in considerazione della funzione che essi hanno, i LEP rappresentano «una “rete di protezione” che salvaguarda condizioni di vita omogenee sul territorio nazionale» e, in questa prospettiva, costituiscono «il necessario contrappeso della differenziazione», con la conseguenza che «nel momento in cui il legislatore statale conferisce una maggiore autonomia a una determinata regione, con riferimento a una specifica funzione, che implica prestazioni concernenti diritti civili o sociali, [deve]… previamente determinare uno standard uniforme di godimento del relativo diritto in tutto il territorio nazionale», in ossequio ai principi di solidarietà, eguaglianza sostanziale e unità[26].
Così la Corte ricostruisce i limiti di sistema che vincolano la clausola di flessibilità del riparto delle competenze e fornisce un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione impugnata, “relativizzandone” il contenuto: «nel momento in cui il legislatore qualifica una materia come “no-LEP”, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Se, invece, lo Stato intende accogliere una richiesta regionale relativa a una funzione rientrante in una materia “no-LEP” e incidente su un diritto civile o sociale, occorrerà la previa determinazione del relativo LEP (e costo standard)». Da qui il rigetto delle questioni sollevate dalle ricorrenti sull’art. 3, c. 3 l. n. 86/2024, in quanto infondate[27].
Quanto alle ulteriori censure sopra richiamate, esse vengono parimenti rigettate poiché le disposizioni impugnate non si limitano a proclamare LEP che resteranno “sulla carta”, ma dettano specifiche norme a garanzia, anche con riferimento alle Regioni terze[28], ponendo quindi le condizioni per rendere l’eguaglianza nel godimento dei diritti effettiva[29].
2.2. Nella sentenza si puntualizza inoltre che lo standard uniforme di godimento da assicurare su tutto il territorio nazionale va necessariamente accompagnato dall’individuazione del relativo costo standard, ovvero il costo attribuibile a una determinata prestazione, da erogare nelle migliori condizioni di efficienza e di appropriatezza. Partendo dal costo standard e dalle prestazioni da erogare si individua il fabbisogno standard, ovvero la reale neces