Il 5 luglio 1946 segna l’anniversario di un vero e proprio “terremoto” nel mondo della moda: al Piscine Molitor di Parigi, Louis Réard presentò ufficialmente il moderno due pezzi che chiamò “bikini”, proprio quattro giorni dopo il primo test nucleare nell’atollo di Bikini. Quel costume che lasciava scoperto l’ombelico, è stato sin da subito considerato troppo audace, scatenando un’ondata di scalpore da parte dell’opinione pubblica: giornali pieni di titoli sensazionalistici, paragoni con un’esplosione atomica e ripetuti divieti di spiaggia in mezza Europa.
Nei due decenni successivi il bikini, da emblema di trasgressione, il bikini divenne fulcro della cultura pop: Brigitte Bardot lo sfoggiò al Festival di Cannes del 1953, Rita Hayworth e Ava Gardner ne fecero oggetto di servizi patinati, mentre le copertine di Playboy e Sports Illustrated ne sancirono l’ingresso trionfale nell’immaginario collettivo. Il punto di svolta avvenne nel 1962, quando Ursula Andress emerse dal mare in Dr. No indossando un modello bianco diventato icona indiscussa, con un’impennata immediata nelle vendite di costumi da bagno.
Eppure, mentre il bikini conquistava cinema e passerelle diventando simbolo di modernità, si radicava anche un vincolo altrettanto forte: quello tra due pezzi e magrezza. Già all’inizio degli anni ’60 la stampa sottolineava come solo le silhouette longilinee potessero indossarlo “con decoro” – il New York Times del 1961 lo definì “permettibile solo per chi non è troppo grasso o troppo magro” – e nelle riviste femminili le fotografie venivano spesso ritoccate per levigare pance e ombelichi, nell’illusione di un ventre “senza difetti”.
Le prime incrinature di questo canone arrivarono lentamente: negli ultimi anni ’80 si cominciò a sentire una stanchezza riguardo all’ossessione per il corpo perfetto, e alle soglie dei ’90 persino le modelle più celebri ammettevano di volersi sottrarre a quel rituale di esposizione estremo. Tuttavia la vera idea di inclusività affonda le sue radici già nel “movimento per l’accettazione del grasso” degli anni ’60 e ’70 – con le manifestazioni “fat-in” e la nascita della NAAFA, l’associazione americana per la fine dei pregiudizi contro i corpi più rotondi – che per decenni è rimasta ai margini della cultura di massa.
Fu solo con l’esplosione dei social network che la body positivity divenne fenomeno globale: intorno al 2012 le influencer plus-size e le prime campagne virali sfidarono frontali canoni di bellezza, invitando a condividere corpi autentici con l’hashtag #EffYourBeautyStandards. Nello stesso periodo brand come Swimsuits For All esplosero sul mercato grazie al “fatkini” in taglie grandi, mentre iniziative come Dove Real Beauty e Aerie #AerieREAL abbandonarono il fotoritocco, promuovendo modelle di ogni forma con cellule, smagliature e curve visibili.
È proprio grazie a queste battaglie culturali e sociali che, nel suo 79° anniversario, il bikini non si limita a raccontare una rivoluzione di stile, ma si erge a manifesto di inclusività e autodeterminazione: non più emblema riservato alle silhouette filiformi, ma invito aperto a ogni donna – di qualunque taglia o età – a reclamare il diritto di sentirsi libera, sicura e padrona del proprio corpo.