Turismo e pace: “… ma mi faccia il piacere!!!” di Fabio Carbone | Twissen

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Come il turismo ha contribuito alla creazione dell’attuale Far West globale.
di Fabio Carbone
Ricercatore, docente, attivista umanitario (fondatore di ACADEMICS4GAZA).
Ambasciatore globale dell’International Institute for Peace through Tourism.

E mentre insegniamo ai nostri studenti – ormai da oltre due decadi – i principi della sostenibilità, del turismo responsabile, e altri simili concetti vuoti, il mondo là fuori brucia. Brucia sotto le bombe, sotto l’indifferenza e/o l’impotenza delle masse, da un lato, e sotto la bramosia e cupidigia delle elite mascherata da razionalità politica, dall’altro. Gaza, Ucraina, Sudan, Congo, Yemen… la lista potrebbe continuare come un rosario laico della sofferenza umana. I media ci mostrano il dolore in diretta, mentre la diplomazia internazionale, come un disco rotto, recita inutili appelli al cessate il fuoco mentre però, per esempio, legittima un genocidio (quello del popolo palestinese) con il pretesto dell’autodifesa (quella israeliana).

In questo scenario, dove l’etica vacilla e la legalità si piega ad una legge della giungla dove “All religious stuff aside, the fact is people who can’t kill will always be subject to those who can”[1],  la domanda più urgente è: dove sono finiti quei ponti di comprensione che ci eravamo illusi di costruire? Il turismo, così spesso celebrato come strumento di pace, di incontro, di solidarietà, per arrivare fin qui? E se scoprissimo che ha contribuito – magari inconsapevolmente – ad alimentare quel sistema di diseguaglianze, inganni e narrazioni tossiche che stanno portando il mondo sull’orlo della barbarie, in uno scenario geopolitico che assomiglia sempre di più a un Far West globale? Il turismo ha fallito? Il turismo non è l’origine degli attuali squilibri e conflitti mondiali, ma ne è complice?

Questo articolo nasce dalla proposta di riflessione critica che ho portato all’ultima riunione dell’International Institute for Peace through Tourism (IIPT), alla quale ho partecipato in qualità di Ambasciatore Globale. In quella sede – profondamente segnata dalle immagini che provengono dai teatri di guerra contemporanei – ho invitato i miei esimi colleghi a rivolgerci questa domanda: che cosa ha fatto e che cosa sta facendo davvero il turismo per la pace? E soprattutto: come possiamo dimostrare, oggi, che il nostro paradigma fondativo – “il turismo come veicolo di pace” – sia ancora valido e credibile?

Viviamo in un’epoca segnata da una nuova architettura del potere globale. I padroni del mondo non sono più gli Stati, ma i consigli d’amministrazione dei grandi fondi d’investimento: BlackRock, Vanguard, JP Morgan. Colossi che muovono migliaia di miliardi di dollari e occupano contemporaneamente le stanze dei bottoni dell’economia, delle Big-Tech, delle banche centrali, persino di enti pubblici e ONG. La loro presenza è tanto pervasiva quanto invisibile. In parallelo, l’Unione Europea corre verso il riarmo, ma le vere battaglie si combatteranno sul fronte tecnologico, dove le scoperte avvengono ormai nei laboratori privati delle multinazionali, non nei centri pubblici di ricerca. Starlink, Neuralink, OpenAI: le nuove frontiere sono privatizzate e opache, modellano le nostre vite e le nostre guerre.

A questo si aggiunge la crisi delle democrazie. Gli elettori, delusi e disillusi, premiano leader che semplificano la realtà a colpi di slogan e nemici pubblici. Modi, Netanyahu, Meloni, Bukele, Trump… la lista è lunga e rivela un desiderio diffuso di ordine autoritario più che di partecipazione (Arendt & Co. si rivoltano nella tomba!). Il turismo, in questo contesto, si è dimostrato incapace di fungere da antidoto. Anzi, troppo spesso ha finito per essere complice, veicolo estetizzato di una normalizzazione dell’ingiustizia.

Dove sono i frutti di decenni di promozione del turismo interculturale? Se milioni di europei sono stati in Egitto, in Palestina, in Marocco, in Turchia, dove sono oggi i segni della solidarietà? Quale consapevolezza hanno prodotto quei viaggi? Se le immagini di bambini bombardati non generano una reazione etica, ma al massimo una storia su Instagram, allora dobbiamo avere il coraggio di chiederci: cosa non ha funzionato nell’educazione alla pace che abbiamo associato al turismo? Il turismo, in quanto pratica di incontro e scoperta reciproca, avrebbe potuto – e dovuto – generare qualcosa di più: un senso più profondo di solidarietà globale. Non solo conoscenza dell’altro, ma legame, alleanza, empatia.

E invece dov’erano, e dove sono, le voci di quei milioni di viaggiatori occidentali che hanno percorso i mercati di Hebron, che hanno sorseggiato tè a Khan el-Khalili, che si sono emozionati davanti alla socialità generosa del popolo libanese o all’ospitalità siriana, oggi ridotta in macerie? Quale coscienza globale abbiamo costruito, se di fronte a un genocidio la maggior parte dei governi e dei media occidentali non solo tace, ma addirittura giustifica, manipola, distorce?

In questo senso, la responsabilità del turismo non è solo strutturale. È culturale, educativa. Abbiamo fallito nell’educare alla pace attraverso il turismo. Ci siamo accontentati di etichette: turismo responsabile, turismo etico, turismo solidale…. Ma cosa abbiamo davvero insegnato? Forse nulla, se alla prova dei fatti nessuno sa più distinguere il giusto dall’ingiusto.

Forse il turismo non è mai stato quello che abbiamo creduto fosse. Forse non può davvero promuovere giustizia e dialogo se non cambiamo radicalmente il paradigma. Altrimenti, diciamoci e accettiamo una volta per tutte che è: il turismo come mero settore economico, fatto di ospitalità, marketing e finanza. Una macchina di consumo esperienziale ben confezionata, che racconta la bellezza del mondo e nasconde le sue ferite. Accettiamo una volta per tutte che il turismo ha fallito nel suo compito educativo perché ha rinunciato a essere un processo trasformativo. È diventato consumo, intrattenimento, esperienza “autentica” solo nel senso mercantile del termine. Ha smesso di essere relazione per diventare prodotto. Ha venduto l’altro come folklore, come paesaggio umano da osservare. E in questo processo ha contribuito non a costruire ponti, ma a rafforzare stereotipi, differenze, superiorità morali ed economiche.

Dietro le promesse di sviluppo e progresso attraverso il turismo, spesso si nasconda la distruzione sistematica di territori, identità, risorse. Sistemi turistici sempre più simili a Spazi di Business Arbitrario, dove le comunità locali pagano il conto ambientale, culturale, civile, mentre l’industria globale del turismo continua a vendere “esperienze autentiche” utili solo alle sue narrazioni di profitto, svuotano le comunità della loro autonomia, della loro terra, della loro voce. Il turismo diventa, così, non solo complice ma spesso cavallo di Troia di dinamiche neocoloniali. Quando il marketing delle destinazioni oscura i conflitti, cancella le resistenze, amplifica propagande, e trasforma la sofferenza in un pacchetto vendibile, allora si passa dalla narrazione alla mistificazione.

E qui si innesta un’altra deriva oscura: la commodification della sofferenza umana. Orde di occidentali che circolano in fila per le slums asiatiche e Sud Americane, con sguardo di commiserazione verso quella “povera gente”, ma con un mai sopito Über alles in fondo al cuore! E poi il dark tourism, che in teoria dovrebbe servire alla memoria, ma in realtà sempre più spesso degenera in safari emozionali del dolore, voyerismo (ho definito war porn quello che spesso viene proposto in musei di guerra [2]). A New Orleans, già diversi anni fa, ho assistito personalmente a scene aberranti: autobus scoperti che portavano turisti nei quartieri devastati dall’uragano Katrina per fotografare gli sfollati come fossero animali in uno zoo. Senza mediazione, senza contesto, senza rispetto. Un’esperienza che pretende di “far sentire” senza voler far capire. Già all’epoca pensai: “qui c’e’ qualcosa che non va…!”

Ma niente è paragonabile all’orrore attuale. In Israele, alcuni tour operator portano gruppi organizzati sulle alture che dominano Gaza per guardare – letteralmente – il genocidio in diretta: bombardamenti, bambini massacrati, intere famiglie sterminate. Con tanto di offerta di binocoli e picnic. La sofferenza come spettacolo. La morte come intrattenimento. Un livello di disumanizzazione che spezza ogni argine morale. E il turismo, lungi dal prenderne le distanze, vi partecipa, lo monetizza, lo legittima.

Allora la domanda non è solo cosa abbiamo sbagliato, ma se sia ancora possibile rimediare. È possibile tornare a un turismo che sia strumento di pace, di educazione, di empatia reale? Oppure dobbiamo rassegnarci al fatto che il turismo, come lo conosciamo, sia irrimediabilmente parte del problema? Se la sua funzione si riduce a marketing, ospitalità e finanza, senza un’etica radicale della relazione, allora abbiamo smarrito il senso originario del viaggio: non vedere l’altro, ma riconoscere sé stessi nell’altro.

Se partiamo dal presupposto che il turismo è uno strumento di pace, allora dobbiamo avere il coraggio di interrogarci sul nostro fallimento. La narrazione accademica, istituzionale e mediatica che per decenni ha insistito su questo assioma, raramente si è chiesta: e se non fosse così? Il nostro dovere, oggi, è riconoscere le crepe nel nostro stesso discorso. È inutile sbandierare i benefici del turismo se non siamo disposti a misurarli contro lo stato reale del mondo. È inutile parlare di “comprensione tra i popoli” se continuiamo a ignorare che molti dei nostri modelli turistici consolidati si poggiano su squilibri strutturali, su frontiere chiuse da una parte e voli low-cost aperti dall’altra, su esotismi commerciali che nascondono ferite coloniali mai sanate.

Il turismo non è neutro. Non lo è mai stato. E se vogliamo davvero che torni a essere un veicolo di pace, dobbiamo prima capire come e perché ha contribuito a normalizzare l’ingiustizia. Forse non tutto è perduto. Forse esiste ancora uno spazio per un turismo giusto, etico, consapevole. Ma perché questo accada, serve una rottura epistemologica, un cambio di paradigma. Serve disobbedienza, serve critica, serve militanza. E serve, soprattutto, memoria attiva: ricordare che viaggiare non è mai stato un atto neutro, ma sempre una scelta politica. O lo diventa davvero, o sarà meglio smettere di chiamarlo turismo.

[1] A parte tutte le questioni religiose, il fatto è che le persone che non possono uccidere saranno sempre soggette a quelle che possono farlo”, citando il Sergente Brad ‘Iceman’ Colbert del First Recon US Marines, intervistato durante l’invasione dell’Iraq dal reporter Evan Wright, che ha inserito la frase nel suo libro Generation Kill (2009).

[2] https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/13683500.2023.2256943; https://twissen.com/en/trends-en/destinations/the-good-the-bad-or-the-ugly-by-fabio-carbone/

Fabio Carbone è un accademico e attivista umanitario. Esperto nel rapporto tra gestione del patrimonio culturale, turismo e promozione della comprensione globale e della pace. Tra le sue numerose esperienze internazionali (Serbia, Iran, Brasile, Ecuador, Afghanistan…), nel 2023 – in pieno conflitto russo-ucraino – è stato invitato dall’Agenzia Nazionale del Turismo dell’Ucraina per fornire consulenza nella pianificazione turistica post-bellica. È fondatore di ACADEMICS4GAZA, un’iniziativa umanitaria dedicata all’educazione in contesti di emergenza, a sostegno degli studenti universitari palestinesi nella Striscia di Gaza.
Si precisa che le opinioni espresse nell’articolo sono da attribuirsi all’autore e non riflettono necessariamente il pensiero di Twissen.
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