Il verde urbano: un itinerario tra il sistema normativo nazionale e quelli regionali / Giulio Profeta

Compatibilità
Salva(0)
Condividi

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Architettura dell’Università Vanvitelli

Finanziato dall’Unione europea-Next Generation EU, Missione 4 Componente 1 CUP B5323016700006; CODICE PROGETTO 20228H7WF3

Introduzione. Il verde urbano: un concetto ancora “enigmatico”

Per quanto il verde urbano sia oggi oggetto di un’attenzione diffusa sia socialmente che, conseguentemente, giuridicamente, la relativa nozione appare ancora in una certa misura sfocata, “enigmatica”, difficilmente sintetizzabile in una definizione precisa a carattere non meramente descrittivo[1].

Le ragioni dietro questa indeterminatezza sono almeno due.

La prima è la mancanza di una elaborazione adeguata da parte del Legislatore statale, il quale fino a questo momento non è intervenuto fornendo una chiara formulazione del verde urbano.

La seconda, susseguente, è la presenza di un irriducibile nucleo a matrice descrittiva che lo connota, che rende complesso identificare elementi costitutivi idonei attraverso cui, quantomeno in potenza, ricostruire una figura concettuale con cui supplire al vuoto di una definizione legislativa di rango statale; come osservato in dottrina, infatti, «il sempre più frequente impiego della locuzione “il verde” in ambito amministrativo-urbanistico, se da un lato – quello empirico – genera un effetto di immediata (seppur apparente) comprensione del fenomeno che si intende rappresentare, dall’altro – quello teorico – mette in luce la difficoltà di delineare in modo netto i confini di detto fenomeno ed, ancor prima, di attribuire allo stesso un significato univoco»[2].

A proposito della prima ragione, si può evidenziare come le predette difficoltà definitorie non sono state riscontrate solo dalla dottrina, ma anche dagli operatori del diritto e dalle istituzioni; ad esempio il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, costituito presso il Ministero dell’Ambiente (oggi Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) in forza dell’art. 3 della l. 14 gennaio 2013, n. 10, ha osservato già nella prima relazione del 2013 che «i) manca tuttora una nozione legale univoca di verde pubblico, così come una nozione legale più circostanziata di verde urbano, ii) è controversa la classificazione del verde pubblico nell’ordinamento delle amministrazioni locali, il che ha importanti rilessi fra l’altro sulle tecniche di copertura dei relativi oneri finanziari, iii) sono tuttora riscontrabili improprie qualificazioni del verde urbano in ambito fiscale»[3].

Con la relazione successiva del 2015, sempre il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico ha ribadito che «la definizione di verde non è univoca», aggiungendo un ulteriore elemento, ovvero il nesso funzionale esistente tra il verde urbano e il d.i. 2 aprile 1968, n. 1444[4], tra le poche fonti in materia, in base al quale ex art. 3 per gli insediamenti residenziali è prevista una dotazione “minima” e “inderogabile” di spazi dedicati ad attrezzature ed impianti di interesse generale pari a 18,00 mq «per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio, con esclusione degli spazi destinati alle sedi viarie», con la precisazione tracciata alla lett. c) del comma successivo che di questi 18,00 mq almeno 9,00 devono essere destinati ad «aree per spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e lo sport, effettivamente utilizzabili per tali impianti con esclusione di fasce verdi lungo le strade»[5].

Il d.i. n. 1444/1968 possiede l’indubbio merito di aver introdotto la categoria del verde urbano nel sistema giuridico ma, nel corso del tempo, ha manifestato alcuni limiti evidenti, che non hanno consentito di costruire da esso una dogmatica vera e propria[6].

Il d.i. n. 1444/1968 dal punto di vista sistematico si è saldato con la c.d. legge-Ponte 6 agosto 1967, n. 765 coniugando il verde urbano con la tecnica pianificatoria della zoonizzazione, ossia la divisione in zone territoriali omogenee del tessuto urbano al fine di regolare l’attività urbanistica ed edilizia, mentre da una prospettiva più prettamente letterale ha offerto una formulazione del verde da un lato soltanto protesa alla sua dimensione pubblicistica, dal momento che non è stata conferita rilevanza al verde privato, dall’altro esplicitamente intrecciata ad un parametro quantitativo, costituito dalla superficie di 9,00 mq.

Proprio questo parametro quantitativo, espressivo di una concezione tale per cui occorreva tutelare il verde in una chiave “negativa”, nel senso di preservare aree verdi all’interno delle città dall’attività antropica di edificazione, ha trovato costantemente proiezione nei decenni successivi, facendo coincidere di fatto la sua nozione con quella di una superficie pari a 9,00 mq da dedicare ad «aree per spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e lo sport, effettivamente utilizzabili per tali impianti con esclusione di fasce verdi lungo le strade»[7].

Le criticità quest’impostazione sono state, oramai, ben poste in evidenza dalla dottrina[8].

Come sottolineato, «la rigidità insita nella definizione di standard, che ignora quindi le diverse ragioni dell’articolazione delle misure e la difficoltà di tradurre le quantità prescritte in maggiori qualità insediative» ha indotto un ripensamento della logica quantitativa a beneficio di un assetto “qualitativo”, anche chiamato “prestazionale”, in grado di rispondere maggiormente ai bisogni della collettività, distinguendo al suo interno e in modo più approfondito le varie tipologie di verde[9].

Proprio questo disallineamento fra l’unica definizione di verde urbano presente nel D. I. n. 1444/1968 di matrice quantitativa e la nuova visione qualitativa-prestazionale ha generato quella sensazione di inadeguatezza della elaborazione legislativa avvenuta fino a questo momento.

In più, diretta conseguenza di quanto appena esposto è la seconda ragione dell’“enigmaticità” rilevata, vale a dire la mancanza di chiari elementi costitutivi del verde urbano, con il risultato che esso trova integrazione solo allorquando sono rispettati i 9,00 mq di aree «per spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e lo sport, effettivamente utilizzabili per tali impianti con esclusione di fasce verdi lungo le strade», senza alcun approfondimento in merito a cosa si intenda per verde urbano a livello dogmatico[10].

Questa configurazione ha comportato diverse ambiguità concettuali, tra cui ad esempio la mancanza di una complessiva ricostruzione in termini unitari del verde, con una bipartizione tra verde privato e verde pubblico molto netta, con le riflessioni sul primo relegate al diritto civile e quelle sul secondo al diritto amministrativo[11].

Alla luce di queste premesse, quindi, si può passare all’analisi della normativa che, soprattutto negli ultimi anni, ha richiamato il verde urbano, con l’auspicio finale di perimetrarne in modo più chiaro i confini e provare a tracciare alcune proposte concrete con cui valorizzarlo ulteriormente[12].

Prima di procedere, tuttavia, all’esame della nozione, è necessario soffermarsi sul carattere decisamente “frastagliato” del verde urbano.

Il carattere “frastagliato” non si manifesta solo e soltanto in relazione al suo significato, ma anche per la sovrapposizione tra competenze distinte, atteso che, come pure notato in dottrina, «il legislatore statale e quelli regionali non considerano la funzione di acquisizione e gestione del verde pubblico in modo unitario», con la conseguenza che esso ricade in differenti materie[13].

Inoltre, occorre tener conto della stretta correlazione esistente tra verde urbano e processi di rigenerazione urbana, dal momento che frequentemente nei relativi atti regolatori si ravvisa la presenza dell’elemento del verde, considerato essenziale nei procedimenti di riqualificazione urbana[14].

Il verde urbano nei recenti interventi normativi nazionali

Il d.i. n. 1444/1968 ha per decenni suggellato nell’ordinamento interno una concezione quantitativa del verde urbano a livello statale e solo a partire dagli anni Novanta si possono scorgere prime forme embrionali di una nuova sensibilità qualitativa-prestazionale[15].

In specie, con la l. 29 gennaio 1992, n. 113 è stato ampliato il concetto di verde urbano, includendo al suo interno oltre alle aree da preservare dall’edificazione anche il patrimonio arboreo piantato per ogni nuovo neonato e minore residente nel territorio comunale[16].

Il vero punto di svolta, tuttavia, è stato rappresentato dalla promulgazione della l. n. 10/2013, la quale si è posta in un solco del tutto diverso, in cui il verde è divenuto una componente imprescindibile del tessuto urbano, in grado di rispondere a bisogni ed istanze della collettività, e non solo un parametro quantitativo da rispettare nell’edificazione del territorio.

Le principali misure a valenza prestazionale contenute nella l. n. 10/2013 sono costituite da:

  1. una modifica alla l. n. 113/1992 che rafforza gli obblighi in tema di piantumazione previsti anche attraverso la predisposizione di un bilancio arboreo, avente per oggetto il numero di nuovi alberi collocati per ogni nuovo neonato e minore residente nel Comune[17];
  2. l’istituzione del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico munito di alcune attribuzioni, tra cui il monitoraggio sull’applicazione della l. n. 113/1992, il potere di proporre un piano nazionale finalizzato alla realizzazione di aree verdi «per consentire un adeguamento dell’edilizia e delle infrastrutture pubbliche e scolastiche che garantisca la riqualificazione degli edifici», verificare l’azione degli enti locali «a garanzia della sicurezza delle alberate stradali e dei singoli alberi posti a dimora in giardini e aree pubbliche», la predisposizione della già ricordata relazione annuale e la promozione degli interventi volti a favorire giardini storici[18];
  3. una vigilanza nei confronti degli enti locali sul rispetto dei parametri quantitativi stabiliti dal d.i. n. 1444/1968[19];
  4. un ampliamento dei contratti di collaborazione anche per «l’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica (CO2) dall’atmosfera tramite l’incremento e la valorizzazione del patrimonio arboreo delle aree urbane, nonché eventualmente anche quelle dei comuni finalizzate alla creazione e alla manutenzione di una rete di aree naturali ricadenti nel loro territorio»[20];
  5. un’estensione delle competenze delle entità sub-statali allo scopo di incrementare gli «spazi verdi urbani, di «cinture verdi» intorno alle conurbazioni per delimitare gli spazi urbani»[21];
  6. una definizione di “albero monumentale”, successivamente anche di bosco vetusto, così come il loro censimento ad opera dei Comuni[22].

In definitiva, per quanto la l. n. 10/2013 abbia indubbiamente rappresentato un avanzamento «per l’avvio della costruzione di un concetto di verde urbano come strategia pianificatoria permanente in grado di incidere sulle future scelte urbanistiche degli enti locali, condizionandole»[23], diventa difficilmente smentibile la dottrina secondo cui «la (…) l. n. 10/2013 (…) pur avendo consentito innegabili passi in avanti in termini non solo di regolazione, ma anche di organizzazione del settore – ha tuttavia una valenza più propositiva che prescrittiva, il che avrebbe richiesto l’approvazione (mai avvenuta) di successive disposizioni integrative di dettaglio»[24].

Il quadro successivo alla l. n. 10/2013 ha visto un completamento dello schema regolatorio tracciato dal Legislatore senza stravolgimenti sostanziali.

Nel 2017 il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, di concerto con l’ANCI, ha pubblicato delle linee-guida «per la gestione del verde urbano e prime indicazioni per una pianificazione sostenibile» allo scopo di orientare l’azione delle entità sub-statali, in specie Comuni, ai sensi degli artt. 3 e 4 della l. n. 10/2013[25].

Le linee-guida sono divise in sette sezioni:

  1. la conoscenza e la regolamentazione del verde;
  2. la pianificazione strategica del verde;
  3. la progettazione del verde;
  4. il piano di monitoraggio e gestione del verde;
  5. gli indicatori per un governo del verde di qualità;
  6. la formazione per gli addetti;
  7. la comunicazione, promozione e partecipazione pubblica.

Il documento considera centrali ai fini della tutela del verde urbano «tre strumenti di settore, non alternativi ma complementari e di supporto l’uno all’altro, che l’amministrazione comunale può adottare per il governo dei propri sistemi verdi urbani e periurbani», ossia il Censimento del Verde, il Regolamento del Verde ed il Piano del Verde, oltreché il «Piano di monitoraggio e gestione del verde» e il «Sistema informativo del verde»[26].

Il ruolo e la funzione di ciascuno di questi strumenti sono diversi.

Il Censimento del Verde si pone quale presupposto logico per l’attività di programmazione del servizio di manutenzione, nonché per la pianificazione di nuove aree verdi e la progettazione di interventi di riqualificazione, sostanziandosi nell’apposizione di un codice numerico o alfanumerico sullo stesso sistema e fisicamente sulla pianta.

Il Sistema informativo del verde, invece, è il naturale complemento del Censimento, dal momento che si compone di una banca dati al cui interno inserire tutta una serie di informazioni essenziali sulle aree verdi.

Il Regolamento del verde si propone l’obiettivo di contenere «prescrizioni specifiche ed indicazioni tecniche e procedurali da rispettare per le corrette progettazione, manutenzione, tutela e fruizione della vegetazione in ambito pubblico e privato», a maggior ragione se è assente una puntuale disciplina regionale sul tema[27].

Il Regolamento si differenzia dal Piano Comunale del Verde nella misura in cui quest’ultimo non introduce un puntuale regime prescrittivo, bensì disegna «una visione strategica dell’assetto (semi)naturale, agro-selvicolturale, urbano e peri-urbano della città, definisce i principi e fissa i criteri di indirizzo per la realizzazione di aree verdi pubbliche nell’arco della futura pianificazione urbanistica generale»; nel concreto, esso diviene «una sorta di piano regolatore del verde, volto a definire l’assetto futuro dell’infrastruttura verde e blu della città, al fine di rispondere alla domanda sociale e ambientale dei territori antropizzati», che deve necessariamente contemplare una serie di aspetti, come la caratterizzazione ambientale e paesaggistica dei diversi comparti del territorio, la classificazione tipologica delle strutture vegetali, la stima del valore degli spazi verdi urbani, l’analisi dei bisogni e la “domanda” di servizi ecosistemici, l’analisi della flora e della vegetazione esistente, la pianificazione delle nuove aree verdi, i criteri per la realizzazione di nuove aree verdi.

Volendo tracciare un parallelismo, il Piano Comunale del Verde sta agli strumenti urbanistici come il Regolamento del Verde sta al regolamento edilizio, nel senso che il primo è orientato a pianificare la città sotto il profilo della tutela e la cura del verde, mentre il secondo regola l’attività edilizia allo scopo di garantire il rispetto delle aree verdi urbane.

Sul piano operativo, la differenza tra le due impostazioni (quantitativa e qualitativa) è evidente: con i parametri standard ex d. m. n. 1444/1968 semplicemente sono state introdotte delle aree da dedicare al verde urbano sottraendole all’edificazione non solo in chiave “negativa”, con la logica qualitativa si indirizza l’attività edilizia verso finalità specifiche in positivo.

Da ultimo, il Piano di Monitoraggio e di Gestione del Verde è orientato alla programmazione delle attività annuali di controllo e gestione del verde, impostando tutte le azioni necessarie a garantire la manutenzione delle aree vegetali in città in base alle diverse funzioni del verde.

Le linee-guida, per quanto siano un documento minuzioso e tra le più intense manifestazioni di un approccio prestazionale in riferimento al verde urbano, presentano, come riconosciuto anche dagli autori, il medesimo vizio di fondo che anima gli interventi legislativi sul tema, ossia la loro non vincolatività prescrittiva e quest’elemento non può che diminuire l’efficacia complessiva dello strumento[28].

Nel 2018 il Comitato ha, poi, varato la Strategia Nazionale del verde urbano, basata «su tre elementi essenziali: passare da metri quadrati a ettari, ridurre le superfici asfaltate e adottare le foreste urbane come riferimento strutturale e funzionale del verde urbano»[29]. Il Comitato ha deciso di adottare, d’intesa con la Conferenza unificata, una Strategia e non un Piano dal momento che «non si tratta di un vero e proprio piano, perché non ha un impatto diretto sul territorio, né di un programma perché non determina azioni e misure specifiche di intervento né prevede finanziamenti»[30].

La Strategia è ispirata nelle sue coordinate di fondo da un approccio NBS (“Nature-Based-Solutions”), «che include una serie di soluzioni ispirate alla natura ma anche un processo partecipativo che consenta di migliorare la qualità ambientale e di fornire miglioramento della salute psico fisica della popolazione con un focus soprattutto alle città»[31].

Successivamente, il verde urbano, così come ricostruito nell’accezione sopra illustrata, ha trovato spazio in una serie di atti e misure adottate dal legislatore nazionale e dal Governo.

In primo luogo, nella legge di bilancio per il 2018, ossia la l. 27 dicembre 2017, n. 205, con la quale all’art. 1, comma 12 è stato introdotto un c.d. “bonus verde”, una detrazione pari al 36% per le imposte delle persone fisiche, con un ammontare complessivo non superiore ai 5.000 euro, in riferimento alle spese sostenute per «a) “sistemazione a verde” di aree scoperte private di edifici esistenti, unità immobiliari, pertinenze o recinzioni, impianti di irrigazione e realizzazione pozzi; b) realizzazione di coperture a verde e di giardini pensili»; l’intervento è stato poi confermato per gli anni 2021, 2022, 2023 e 2024[32].

Di natura amministrativa e non fiscale, invece, è il contenuto dell’art. 4 del d.l. 14 ottobre 2019, n. 111 (c.d. “Decreto-Clima”), così come convertito con modificazioni nella l. 12 dicembre 2019, n. 141, dedicato alle «azioni per la riforestazione», che si concretizzano in un finanziamento «di un programma sperimentale di messa a dimora di alberi, ivi compresi gli impianti arborei da legno di ciclo medio e lungo, purché non oggetto di altro finanziamento o sostegno pubblico, di reimpianto e di silvicoltura, e per la creazione di foreste urbane e periurbane, nelle città metropolitane».

La creazione di foreste urbane e periurbane diviene, quindi, un interesse pubblico da perseguire mediante un’azione amministrativa appositamente dedicata e finanziata, seppur ancora confinata nel recinto delle città metropolitane e non di tutti i Comuni italiani[33].

Sulla scia di questa innovazione legislativa, la «tutela e la valorizzazione del verde urbano ed extraurbano» sono state i

Recapiti