7 Agosto 2025 – In vista della 69esima ricorrenza della strage nella miniera di Marcinelle, a Bois du Cazier, dell’8 agosto 1956, ripubblichiamo un racconto di Luigi Dal Cin, tratto dal suo volume “Sulla porta del mondo. Storie di emigranti italiani” (Terre di Mezzo editore, 2024), realizzato con la Fondazione Migrantes. Le illustrazioni sono di Cristiano Lissoni.
Lo tengo aperto qui davanti a me, sopra il foglio bianco ancora da scrivere. L’ho trovato tra le vecchie carte di mio nonno, conservate nel baule in soffitta. Riposava lì, ripiegato su sé stesso, chissà da quanti anni. Un manifesto rosa.
“Operai italiani, condizioni particolarmente vantaggiose vi sono offerte per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe.” E subito sotto il titolo un’invitante tabella con i salari giornalieri. A seguire: “Premio temporaneo. Per un periodo di 6 mesi, a partire dal 1° novembre 1951, gli operai delle miniere riceveranno, in più del loro salario, un premio eccezionale e supplementare”. E poi, in bella evidenza, tutta una serie di benefici: “Assegni familiari, Assenze giustificate per motivi di famiglia, Carbone gratuito, Biglietti ferroviari gratuiti, Premio di natalità, Ferie, Alloggio”. In fondo al manifesto: “Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio dall’Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall’Italia al Belgio dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”.
Strano, però. Sì, strano. Nessun accenno alle condizioni di lavoro. A quale profondità i minatori avrebbero dovuto inabissarsi nel ventre della terra per scavare il carbone? Quante ore al giorno avrebbero dovuto lavorare là sotto? C’erano dei rischi? Rischi lavorativi? Rischi per la salute, a respirare tutta quella polvere di carbone? Niente. Il manifesto rosa non dice nient’altro.
Mio nonno non è mai emigrato in Belgio, ma aveva conservato con grande cura questo manifesto. Mi viene da pensare che, sfiancato dalla fame e dalla miseria, avesse preso in considerazione la possibilità di partire per lavorare nelle miniere belghe. Sarebbe mai ritornato? Perché è proprio nelle parole di propaganda altisonante di questo manifesto rosa che vanno cercati i motivi per cui nella tragedia della miniera di Marcinelle la maggior parte delle vittime era italiana. Tra queste, la maggior parte era partita dall’Abruzzo.
Una promessa
La Seconda guerra mondiale aveva lasciato in Italia ferite profonde. Una nazione, fatta a pezzi, da ricostruire, un’economia in ginocchio, interi territori ridotti in miseria. Fu allora che la promessa di una vita migliore apparve all’improvviso su curiosi manifesti rosa appesi per le strade delle città a dei paesi di tutta Italia.
Un miraggio di speranza nel deserto che la guerra aveva lasciato dietro di sé. In molti lo leggono. Qualcuno se lo fa leggere. È una proposta. Di più. È una promessa. Un lavoro. Uno stipendio. Un lavoro nelle miniere di carbone, ben stipendiato.
Belgio. Certo, significa separarsi dagli affetti e dai luoghi di sempre. Ma sarebbe stato per poco: si guadagna, si risparmia, e poi si ritorna a casa. Quel manifesto rosa è un proclama. A chiare lettere annuncia la liberazione dalla miseria. Una prospettiva di riscatto. Una via di fuga.
Nel disastro della miniera di carbone Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio, persero la vita 262 minatori, di cui 136 italiani. E la regione con il maggior numero di vittime fu l’Abruzzo. Era l’8 agosto del 1956. Fu il terzo incidente per numero di vittime nella storia dei minatori italiani emigrati. Il primo, per numero di morti, fu il disastro avvenuto nel 1907 a Monongah in West Virginia, negli Stati Uniti, dove le vittime furono in prevalenza italiane, in prevalenza molisane. Molise e Abruzzo: unite in un’unica regione fino al 1963, drammaticamente accomunate anche nelle condizioni di lavoro dei propri emigranti.
Approfittate degli speciali vantaggi
Il 23 giugno 1946 tra il governo italiano e quello belga era stato firmato un trattato che prevedeva un gigantesco baratto. L’Italia doveva inviare in Belgio 2.000 lavoratori a settimana da impiegare nelle miniere. In cambio, il Belgio assicurava all’Italia una buona quantità di carbone per ogni minatore. Appena uscita dalla guerra, l’Italia contava milioni di disoccupati e aveva necessità di carbone per far ripartire le proprie industrie. In Belgio, invece, la mancanza di manodopera nelle miniere frenava la produzione.
Il governo italiano considerava l’emigrazione come il principale fattore economico per la ricostruzione del Paese tramite le rimesse, ovvero il trasferimento del denaro degli emigranti verso il Paese d’origine, e poiché in Belgio c’era bisogno di manovalanza a basso costo incentivò la partenza di lavoratori che non trovavano impiego in Italia.
Dell’accordo “minatori in cambio di carbone” – il trattato parlava testualmente di “accordo minatori-carbone” – sui manifesti rosa della Federazione carbonifera belga, però, non c’era traccia. I minatori emigranti allora non ne furono messi a conoscenza. Lo scoprirono solo dopo il disastro di Marcinelle. E ne nacque una questione molto controversa. L’accordo “minatori-carbone” equiparava infatti i lavoratori a una merce. I minatori italiani sentirono di essere stati trattati come de-portati economici, venduti da un’Italia matrigna e cinica per qualche misero sacco di carbone. E se l’accordo si occupava di tutti gli altri aspetti dello scambio, si preferiva invece chiudere gli occhi, sia da parte delle autorità belghe che di quelle italiane, sulle condizioni di vita e di lavoro che effettivamente attendevano i lavoratori italiani destinati alle miniere del Belgio.
Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Condizioni particolarmente vantaggiose di lavoro sotterraneo. Premio temporaneo, Assegni familiari, Assenze giustificate per motivi di famiglia, Carbone gratuito, Biglietti ferroviari gratuiti, Premio di natalità, Ferie, Alloggio.
Propaganda
Pura propaganda. Pubblicità ingannevole, diremmo oggi. Perché nei vagoni di ogni treno erano stipate circa mille persone. E, una volta a destinazione, la promessa degli alloggi a prezzi scontati si svelava in tutta la sua cruda realtà. Baracche fatiscenti dove pochi anni prima erano stati rinchiusi i prigionieri di guerra. E apparve subito chiaro come per gli italiani emigrati non fosse possibile affittare un alloggio più dignitoso. Non solo per ragioni economiche.
La gente del posto lo scriveva su cartelli: Ni animaux, ni étrangers ovvero “Né animali, né stranieri”. Non mancò infatti il disprezzo nei confronti degli emigranti italiani, a cui fu affibbiata l’etichetta dispregiativa di macaronì. E poi c’era l’impatto con la miniera e le “condizioni particolarmente vantaggiose di lavoro sotterraneo” che talvolta prevedevano che i minatori arrivassero a oltre mille metri di profondità.
L’inesperienza, la mancanza di un periodo di formazione e l’ignoranza sulla reale situazione in cui avrebbero dovuto lavorare rendevano particolarmente traumatica la discesa in miniera. E non c’era nemmeno la consapevolezza che respirare quell’aria intrisa di polvere di carbone esponeva al rischio di contrarre la silicosi, una grave malattia professionale che ha portato alla morte centinaia di migliaia di minatori. Ma ormai non era più possibile tornare indietro. Chi rompeva il contratto poteva finire in carcere.
La tragedia di Marcinelle
Pare che all’origine del disastro ci fu un’incomprensione tra i minatori che dal fondo del pozzo caricavano sull’ascensore i vagoncini con il carbone e i manovratori in superficie. Alle 8 e 10 del mattino dell’8 agosto 1956 un vagone di carbone rimase incastrato nella gabbia del montacarichi ma l’ascensore partì comunque. Nella risalita il carrello che sporgeva tranciò le condutture dell’olio, i tubi dell’aria compressa e i cavi dell’alta tensione. Le scintille causate dal cortocircuito fecero incendiare l’olio.
Fu subito l’inferno. Un imponente incendio si estese alle gallerie superiori mentre sotto, a oltre mille metri di profondità, i minatori venivano soffocati dal fumo. Il fuoco infatti era divampato nel pozzo d’ingresso dell’aria e il fumo prodotto dalla combustione raggiunse ben presto ogni angolo della miniera.
Fin dai primi istanti la gravità dell’incidente e l’impossibilità di trarre in salvo gli eventuali superstiti apparvero chiare ai soccorritori. Il 22 agosto, dopo due settimane di difficili ricerche, mentre una fumata nera e acre continuava ancora a uscire dal pozzo, uno di loro, riemergendo affranto dalle viscere della miniera, sussurrò in italiano: “Tutti cadaveri”.
A Marcinelle persero così la vita 262 minatori di diverse nazionalità ma per la maggior parte, 136, italiani. Di questi, 60 erano abruzzesi, di cui quasi la metà dai paesi di Manoppello e Lettomanoppello, in provincia di Pescara.
Il ministro dell’Economia belga creò una commissione d’inchiesta alla quale presero parte due ingegneri del Corpo delle miniere italiane. Anche la Federazione carbonifera belga creò una propria commissione d’indagine. Le inchieste si proponevano di fare “ogni luce” su cosa fosse accaduto nella miniera di carbone Bois du Cazier a Marcinelle la mattina dell’8 agosto 1956. Ma nessuna delle istituzioni mantenne pienamente le sue promesse.
Da “macaronì” a “copains”
Fu la strage di Marcinelle a far superare i preconcetti sui minatori italiani. La tragedia infatti accomunò famiglie italiane e belghe nello stesso lutto e all’improvviso fu chiaro per tutti come lo sviluppo economico dell’intera nazione belga stesse poggiando anche sul lavoro di molti italiani, schiavi del carbone.
Nel 1956, tra i 142.000 lavoratori impiegati nelle miniere belghe, 63.000 erano stranieri e, tra questi, 44.000 erano italiani. “Il nostro vicino, che non la smetteva mai di insultare mio padre, è venuto da noi piangendo”, dichiarò in un’intervista il figlio di un minatore. “La comunità italiana del Belgio ha pagato con il sangue il prezzo del suo riconoscimento”, commentò il quotidiano Le Monde.
L’impressione della tragedia di Marcinelle trasformò i macaronì in copains, “amici”. Da quel dolore si avviò il processo di integrazione degli italiani in Belgio. Il prezzo pagato per ottenere il riconoscimento della dignità degli emigranti italiani fu di 136 vite, consumate in poche ore. Vite perdute per riscattare una dignità propria a ogni essere umano. La storia a venire era già pronta a chiudere gli occhi per dimenticare e riproporre lo spaventoso baratto.
Nel 2012 la miniera di Marcinelle è stata inserita tra i siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Un riconoscimento, certo, ma soprattutto un monito. Per non dimenticare gli incidenti sul lavoro che hanno segnato le pagine più buie della storia dell’emigrazione. (Luigi Dal Cin, “Migranti Press” n. 6 – giugno 2025)