etica delle relazioni fra umani e animali: paradossi e progresso

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di Simone Pollo
Professore associato di Filosofia morale all’Università di Roma Sapienza. Esperto in etica animale e ambientale.

Mai come oggi gli esseri umani hanno utilizzato per i propri scopi gli animali non umani. Solo per produrre cibo ogni anno vengono utilizzati oltre 100 miliardi di vertebrati terrestri (le cifre per gli animali marini sono ben maggiori e molto più difficili da stimare). I mammiferi allevati dagli esseri umani costituiscono il 62% della biomassa totale dei mammiferi del pianeta (noi sapiens siamo il 34% e solo il 4% sono mammiferi selvatici).

Questi dati potrebbero portarci a pensare che la nostra considerazione morale, politica e giuridica degli animali sia oggi del tutto insufficiente e forse anche peggiore che in passato. Ciò è vero se guardiamo al numero degli animali utilizzati e ai modi del loro uso (come l’allevamento industriale), ma è falso se adottiamo un altro punto di vista. Oggi le relazioni fra umani e animali sono un caso paradossale.

Mai come oggi nella storia dell’umanità, infatti, gli animali sono stati pensati come meritevoli di attenzione morale e di considerazione politica, nonché in qualche modo protetti da leggi e norme.
Nel corso del XVIII secolo, infatti, nella cultura europea e grazie alle filosofie dell’Illuminismo, si realizza una svolta nelle convinzioni morali. La sofferenza (quella umana, innanzitutto) viene considerata un male, qualcosa da cui gli esseri umani devono essere protetti e che deve essere evitata (ad esempio proteggendo gli individui con una serie di diritti umani fondamentali). In quello stesso periodo, questa nuova attenzione morale alla sofferenza umana porta in modo quasi automatico a ritenere che anche la sofferenza animale sia moralmente problematica.

Se la sofferenza è un male per gli esseri umani perché non dovrebbe esserlo anche per gli animali? Come affermò Jeremy Bentham, il filosofo che “inventò” l’etica utilitarista, la domanda da porsi per sapere se un essere meriti rispetto morale non è se questi cammini su due gambe o quattro zampe, ma se quell’essere possa soffrire.

Questo nuovo modo di intendere la sofferenza è il terreno di coltura in cui fioriscono le prime forme di associazionismo animalista e vengono promulgate le prime leggi di protezione animale (come il Martin Act in Inghilterra nel 1822).
Gli animali cominciano a essere gradualmente considerati non più solo “cose” di cui gli umani possono disporre liberamente, ma soggetti che, in quanto senzienti, meritano una qualche forma di tutela.
A questo processo di “dereificazione” degli animali contribuisce in modo decisivo nel XIX secolo la rivoluzione scientifica di Charles Darwin. Lo scienziato inglese non ci ha lasciato solo una nuova visione del vivente, ma anche le premesse per un cambiamento delle nostre idee morali.

Il mondo darwiniano, infatti, è non antropocentrico: noi non siamo in alcun modo superiori agli altri viventi né c’è un progetto che ci mette al centro del mondo in una posizione di dominio sugli altri esseri (come quello di cui racconta la Bibbia). Discendiamo tutti da un comune antenato e – come scriveva Darwin – siamo “tutti legati in un’unica rete”.

Proprio la rivoluzione di Darwin è alla base di quell’idea che un secolo dopo di lui darà l’avvio alle discussioni contemporanee sull’etica delle relazioni fra umani e animali, ovvero l’idea di specismo (che a sua volta genera quella di antispecismo). Dopo Darwin non possiamo più affermare che gli esseri umani hanno diritto a utilizzare qualsiasi altro essere vivente, solo perché sono umani e in quanto tali speciali e superiori.
L’appartenenza di specie non ha più un intrinseco significato morale, e sicuramente non giustifica l’uso indiscriminato degli animali da parte degli esseri umani

Queste idee oggi circolano nella nostra società e influiscono sui comportamenti di molte persone, che ad esempio modificano la propria alimentazione sulla base della convinzione che, avendo una possibilità di scelta, alimentarsi con animali non sia moralmente accettabile (a maggiore ragione se quegli animali hanno avuto il trattamento che l’allevamento industriale gli riserva). Queste idee non influiscono solo sulle condotte personali degli individui, ma contribuiscono a quel processo di “dereificazione” sul piano giuridico.
L’articolo 13 del Trattato di Lisbona che disciplina il funzionamento dell’Unione Europea afferma che gli animali, in quanto esseri senzienti, devono vedere il proprio benessere rispettato quando gli umani ne fanno uso.
Non si parla di diritti fondamentali degli animali, certo, né dell’abolizione del loro uso, ma – in una prospettiva storica – si tratta di un cambiamento importante.
Una norma fondamentale della nostra società europea riconosce la senzienza degli animali e dà loro uno status diverso da quello delle semplici cose.

Ecco perché oggi le nostre relazioni con gli animali sono al centro di un paradosso: li usiamo come mai prima, ma anche come mai prima li pensiamo e riconosciamo l’importanza di una loro tutela.
C’è chi pensa che questo riconoscimento della senzienza degli animali e delle loro esigenze di benessere sia solo un alibi per continuare a sfruttarli liberamente, rendendo la cosa più accettabile all’opinione pubblica.
In effetti, il dubbio può venire se constatiamo quanto oggi gli animali siano usati dagli esseri umani e come in molti casi il “benessere animale” sia solo un facile slogan con poco o nessun contenuto (questo sicuramente in molti casi di allevamento a scopo alimentare).

Eppure, c’è anche un modo più ottimista di vedere le cose. Possiamo pensare, cioè, che importanti passi in avanti siano stati fatti e che oggi siamo in una fase di transizione piena di contraddizioni, ma che non preclude a ulteriori evoluzioni in direzione di un migliore trattamento degli animali da parte degli esseri umani.
In questa prospettiva, il benessere animale non va visto come un traguardo, ma come un punto di partenza per nuove forme di considerazione morale, politica e giuridica degli animali da pensare e realizzare in futuro.

A sostenere e lavorare per la realizzazione di tali nuovi e ulteriori sviluppi oggi deve contribuire senza dubbio una consapevolezza ecologica della necessità di trasformare complessivamente le nostre relazioni con il mondo non umano. Il cambiamento climatico in atto e le sue possibili conseguenze catastrofiche richiedono un ripensamento delle nostre idee morali, dei nostri comportamenti e delle nostre istituzioni in senso non antropocentrico.
L’allevamento di miliardi di animali non è solo un problema morale per quello che patiscono quegli animali nel diventare cibo per gli esseri umani, ma oggi lo è anche per le devastanti conseguenze ambientali e climatiche che produce sul pianeta. Quella rete di cui parlava Darwin è oggi particolarmente fragile e, per prendersene cura, bisogna anzitutto riconoscerne l’esistenza.

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