Tumore al seno, ancora disparità tra le regioni: la salute delle donne non può essere questione di fortuna
Advocacy significa “far sentire la propria voce”, influenzare le istituzioni affinché vengano allocate risorse economiche in favore di istanze per promuovere l’interesse del cittadino, con risultati che rimangono nel tempo, che potranno essere goduti anche dalle future generazioni. Ed è in questa ottica che a giugno scorso ha preso il via la campagna Lafortuna costa, la sfortuna di più, lanciata da Europa Donna Italia per sensibilizzare opinione pubblica e istituzioni. La mobilitazione proseguirà fino a ottobre, mese dedicato alla prevenzione del tumore al seno, per poi approdare a Roma e successivamente nelle Regioni ancora indietro, con iniziative di advocacy rivolte ai decisori politici.
In Italia, nel 2025, non tutte le donne hanno le stesse possibilità di prevenzione del tumore al seno. A seconda della Regione in cui si vive, infatti, si può rientrare tra le “fortunate” o tra le “sfortunate”. Le prime abitano in una delle sei Regioni, Basilicata, Emilia-Romagna, Lombardia, Marche, Toscana e Veneto, dove lo screening mammografico è garantito dai 45 ai 74 anni, come raccomandano le Linee guida europee. Le seconde, invece, risiedono nei restanti territori, dove l’ampliamento della fascia di età è stato adottato solo in parte o non è mai stato introdotto: in alcuni casi lo screening comincia a 45 anni, in altri solo dai 50; a volte si ferma a 69 anni, altre volte arriva fino a 74.
«Si tratta di disparità che non possiamo accettare», denuncia Rosanna D’Antona, presidente di Europa Donna Italia. «Dal 2017 l’Europa chiede di estendere lo screening mammografico dai 45 ai 74 anni, eppure oggi oltre due milioni di donne italiane sono ancora escluse. Questo significa negare possibilità concrete di salute e, in alcuni casi, di salvezza».
Il nodo, come spesso accade, è quello dei costi. Estendere lo screening rappresenta una spesa per il Servizio Sanitario Nazionale, ma, avverte D’Antona, «non farlo sarebbe un clamoroso autogol. Le donne pagherebbero il prezzo più alto, private della possibilità di diagnosticare la malattia in fase precoce, quando è più curabile. Ma a rimetterci sarebbe l’intera collettività: investire nella prevenzione significa evitare i costi, ben più alti, delle terapie necessarie per tumori scoperti troppo tardi».
E i costi non sono solo economici. Ci sono quelli sociali, lavorativi, psicologici e affettivi. Perché quando una donna si ammala, tutto il sistema di relazioni intorno a lei ne è coinvolto.