Una scuola coltiverà e custodirà i semi del pomodorino di Manduria

Compatibilità
Salva(0)
Condividi

I produttori: “Diffondere i semi è il modo migliore per conservarli ed evitare che possano andare perduti”

Da qualche mese, i semi del pomodorino di Manduria Presidio Slow Food sono al sicuro in una scuola. Intendiamoci, niente che assomigli al famoso deposito nei ghiacci delle Isole Svalbard: i semi del pomodorino di Manduria vengono conservati sotto terra, seminati e coltivati per ottenere nuove piante e nuovi semi. 

Il progetto, che coinvolge l’istituto agrario ‘Luigi Einaudi’ di Manduria (Taranto), è nato per volontà della comunità di produttori che aderiscono al Presidio. La cerimonia di consegna dei semi è avvenuta la scorsa primavera, nei giorni in cui è partita la semina – che, anche quest’anno come già l’anno scorso, è cominciata dai terreni dell’azienda agricola Apulia Farm, la realtà fondata dalla produttrice Lucia Barnaba e oggi, dopo la sua scomparsa, portata avanti dai genitori.

L’idea di avere un custode del seme, spiega il loro portavoce Giampiero Spina, nasce dalla necessità di non rischiare di perderlo: «Anni fa, grazie al lavoro con Slow Food, l’abbiamo recuperato e ora il pomodorino di Manduria esiste, noi lo coltiviamo e ne riproduciamo il seme. Ma siccome la produzione resta di nicchia, il rischio è che un domani possa di nuovo scomparire. Per questo motivo abbiamo deciso di diffondere il seme, partendo dall’istituto agrario della città». Docenti e alunni lo conserveranno coltivando secondo il disciplinare messo a punto dai produttori del Presidio Slow Food.

I numeri del Presidio

5 produttori che oggi aderiscono al Presidio

3 ettari complessivamente coltivati

80-90 quintali la resa media per ettaro

Il principale vantaggio di avere una realtà che si occupi solamente della custodia e della riproduzione del seme, spiega l’agronomo Francesco Sottile, membro del board di Slow Food, «è che in questo modo è possibile conservarlo in purezza: la scuola, rispetto ad altri terreni coltivati, è un’area più protetta dal polline proveniente da altre piante». Inoltre, «il seme migliore viene dai pomodori migliori: se il pomodoro migliore lo si tiene per i semi, non lo si può vendere». Motivo per cui avere chi si occupa soltanto della selezione genetica, senza necessità di dover far quadrare i conti economici, è un bella fortuna. In ogni caso, se necessario i produttori potranno comunque ricorrere al seme autoprodotto. 

Un pomodoro coltivato in asciutta e di cui non si spreca nulla

Oltre all’istituto agrario, anche gli agricoltori desiderosi di entrare a far parte della comunità dei produttori del Presidio Slow Food del pomodorino di Manduria sono chiamati a contribuire alla custodia: il primo anno, con i semi messi a disposizione della comunità, sarà dedicato alla riproduzione della semente; dal secondo, potranno vendere i frutti fregiandosi del riconoscimento come Presidio. 

«Non siamo gelosi del seme, per questo lo condividiamo – aggiunge Spina –. Per noi produttori il vantaggio è che se un anno perdiamo il seme ci possiamo rivolgere alla scuola che lo custodisce, ma il vero beneficio non è nostro, ma del pomodorino stesso: lo facciamo affinché non si perda più».

Anche perché oggi la produzione è sì ripresa, ma i numeri rimangono bassi: quest’anno, complessivamente, la superficie coltivata ammonta a tre ettari, con una resa di circa 80-90 quintali per ettaro, al massimo un chilo a pianta. «La coltivazione è molto laboriosa e poco remunerativa rispetto ad altre varietà di pomodorini: la qualità del prodotto ci consente di raggiungere un mercato di fascia alta, ma sono piccole quantità». Allora perché intestardirsi in una coltivazione così difficile? Ad esempio perché quello di Manduria è un pomodorino particolarmente adatto alle condizioni siccitose, sempre più frequenti: «Viene coltivato in asciutta, cioè senza irrigazioni». Questo, spiega Spina, fa sì che il pomodoro si nutra degli elementi minerali del terreno e acquisti un sapore diverso, meno dolce degli ibridi commerciali ma più caratterizzante. Al punto che del pregiato frutto non si butta via niente: «I semi li mettiamo in vasetti con olio, origano e sale, da usare come condimento per le friselle. Da mille passate otteniamo una trentina di vasetti appena: probabilmente non è conveniente se guardiamo soltanto l’aspetto commerciale, ma è una tradizione, una storia, perché qua si è sempre fatto così». Non solo: filtrando il succo di pomodoro, si recupera anche l’acqua da utilizzare in piatti brodosi, minestre o persino nella preparazione di cocktail. E le bucce? «Finora le abbiamo restituite al terreno, come forma di concimazione, ma vogliamo provare anche a essiccarle per farne una polvere». Perché del pomodorino non si butta via niente.

A cura di Marco Gritti, m.gritti@slowfood.it

Recapiti
Press Slow Food