15 Settembre, 2025
Cultura del dato in azienda: dalla teoria alla pratica
- La cultura del dato è un insieme di pratiche condivise che permettono all’organizzazione di prendere decisioni basate su informazioni affidabili.
- Per misurare la maturità non bastano i framework, servono segnali concreti d’uso e la coerenza tra management e operatività.
- Leadership, ownership diffusa e incentivi sono le leve che rendono la data culture reale, insieme al ruolo del middle management nel tradurre principi in azioni.
- Il dato va trattato come un asset strategico: qualità, sicurezza, tracciabilità e sovranità sono condizioni necessarie per valorizzarlo.
- Il percorso verso una vera data culture è graduale e pragmatico: si parte da pochi casi d’uso fino a consolidare un approccio misurabile e sostenibile.
La ‘cultura del dato’ è diventata un tema centrale e trasversale, ma tra dichiarazioni d’intenti e risultati concreti persiste spesso un divario che si riflette in iniziative ridondanti e decisioni prese su informazioni parziali o incoerenti.
Durante la tavola rotonda “Strategies for Implementing a Data Culture”, tenutasi durante il Data Management Summit dell’11 settembre 2025 a Reggio Emilia, sono state messe in luce diverse considerazioni legate alla cultura del dato in azienda.
L’evento ha permesso di mettere a fuoco cosa significhi davvero Data Governance, come si possa misurare in modo sensato, quali freni culturali e organizzativi la ostacolino e come trasformarla in una pratica quotidiana per migliorare processi e decisioni.
Cosa si intende per “cultura del dato”
La cultura del dato non coincide con un corso tecnico o con l’adozione di una nuova piattaforma, ma riguarda prima di tutto un linguaggio comune e un insieme di abitudini diffuse che definiscono il modo in cui l’azienda entra in relazione con le proprie informazioni.
Costruire una vera cultura del dato significa fondare il lavoro su una base informativa solida e condivisa, curando una fonte unica di verità davvero accessibile a ogni livello. Integrare i dati nei processi decisionali della leadership e nelle attività dei team e sviluppare la capacità di utilizzare l’informazione sia in modo strutturato che in modo creativo. In questa prospettiva, la democratizzazione del dato non è uno slogan, ma l’idea che la base informativa diventi un patrimonio condiviso che abilita scelte migliori lungo tutta la catena del valore.
C’è anche una dimensione valoriale: avere “amore per il dato” significa non tollerare imprecisioni, incoerenze o contaminazioni evitabili e intervenire quando qualcosa non torna. È un atteggiamento pratico che rifiuta l’uso rassegnato di report sbagliati o di analisi approssimative dettate dall’abitudine e che collega strumenti e dashboard a obiettivi concreti.
In questo senso, la cultura del dato è fatta di relazioni, responsabilità e consapevolezza diffusa, non solo di competenze tecniche.
Maturità della cultura del dato: come si misura in azienda
Una scelta male informata è una scelta inconsapevole e perciò pericolosa. La vera maturità si misura nella capacità di un’organizzazione di diffondere data literacy e garantire dati affidabili.
– Federico Bonelli –
Misurare la maturità della cultura del dato non equivale solo ad assegnare un punteggio. Una valutazione strutturata esamina architetture, policy, controlli e processi attraverso i maturity model di data governance, offrendo una lettura chiara di ruoli, standard e tracciabilità.
Tuttavia, questi strumenti vanno integrati con segnali che misurino l’uso reale:
- quanto e come vengono consultate le informazioni,
- quali decisioni si appoggiano davvero ai dati,
- quali reparti partecipano alle iniziative interne su dati e AI,
- come evolvono i KPI di qualità e di governance.
In più, è fondamentale garantire momenti di confronto: capita che il management consideri il sistema maturo, mentre i team operativi segnalano difficoltà di accesso, incoerenze o processi macchinosi. Queste differenze permettono di mappare i gap e definire una roadmap che tenga insieme priorità di business e interventi organizzativi.
Non si tratta di una sfida legata soltanto alle dimensioni aziendali: realtà più piccole possono incontrare ostacoli negli investimenti e negli strumenti, ma anche le grandi faticano a rendere uniforme la governance su scala aziendale. All’interno della stessa organizzazione è frequente trovare reparti molto avanzati accanto ad altri ancorati a pratiche tradizionali. Anche i segnali di quotidiana inefficienza dicono molto della maturità:
- richieste ridondanti di informazioni già presenti,
- le duplicazioni di attività,
- l’adozione di architetture importanti che a distanza di tempo risultano poco utilizzate.
Leve del cambiamento: leadership, ownership, incentivi
La cultura del dato non si decreta, si costruisce attraverso alcune leve ricorrenti.
- La prima è la sponsorship della leadership, che rende visibile come le decisioni — dalle più piccole a quelle strategiche — siano effettivamente guidate da evidenze.
- La seconda è l’ownership diffusa: la qualità, la tracciabilità e la responsabilità non sono temi confinati al Data Office, ma compiti di chi genera e utilizza i dati.
- La terza è la leva degli incentivi, che collega il corretto uso del dato e l’allineamento alle regole a meccanismi di riconoscimento e responsabilità.
In mezzo a questi elementi c’è il middle management, che funge da cerniera tra principi e pratica, traducendo i framework in routine operative comprensibili, mostrando come la disciplina sul dato acceleri le performance e riduca i rischi, e accompagnando i team nell’apprendimento sul campo con attività mirate e con un approccio di “learn by doing”.
Accanto alla consapevolezza, serve lavorare sulla desiderabilità del cambiamento. Le persone cambiano più volentieri quando vedono valore, esempi vicini e un contesto che permette di sperimentare. Qui contano molto le iniziative nate dal basso, comunità interne che condividono esperienze, formati leggeri e ripetibili, momenti in cui si affrontano non solo i successi ma anche gli insuccessi per trarne lezioni.
Il dato come asset
Democratizzare l’accesso ai dati non cancella l’aspetto politico dell’informazione. Chi possiede e controlla il dato esercita un potere reale. Per questo il dato va trattato come un asset, con tutto ciò che ne consegue in termini di qualità, sicurezza, conformità e sovranità.
La spinta verso il cloud richiede consapevolezza su dove risiedono i dati, quali siano i punti di passaggio, come vengono protetti e chi ne detiene le chiavi. Concentrarsi solo su perimetri e infrastrutture senza portare al centro il valore del dato e le responsabilità di gestione porta a controlli incompleti. La governance efficace tiene insieme accesso e protezione, chiarezza dei ruoli e tracciabilità, in un equilibrio che consenta alle persone di lavorare meglio senza esporre l’organizzazione a rischi evitabili.
Dalla teoria all’operatività: persone, processi, strumenti
La tecnologia abilita se si integra nei flussi reali di lavoro. Strumenti con una buona esperienza d’uso, che si inseriscono nel quotidiano senza imporre passaggi ridondanti o non lineari, riducono le resistenze generate dalle prassi consolidate. Non tutto può essere standardizzato in logiche interamente self-service. Molti uffici hanno esigenze specifiche, anche nella presentazione dei dati e richiedono visualizzazioni precise e layout coerenti con il contesto.
È fondamentale integrare business e IT per evitare conflitti e incomprensioni, lavorare per cicli brevi fino alla messa in produzione — senza sacrificare qualità e scalabilità — e soprattutto rispettare l’ordine giusto delle priorità.
Durante la tavola rotonda è emerso anche il valore di comunità interne attive da tempo, cresciute da piccoli gruppi a reti ampie e interfunzionali, capaci di organizzare incontri regolari, condividere esperienze e aprirsi anche all’esterno quando ha senso. Formati semplici, come momenti ricorrenti di scambio su casi d’uso, limiti e rischi degli strumenti — compresi quelli legati all’AI generativa e al prompt engineering — favoriscono l’apprendimento diffuso e la circolazione di un linguaggio comune.
Un percorso pragmatico
Ogni organizzazione ha la propria traiettoria, ma alcuni elementi ricorrono. È utile allineare gli obiettivi di business con le iniziative sui dati, fotografare lo stato attuale in termini di architetture, processi, competenze e percezioni, e scegliere pochi casi d’uso ad alto impatto percepito che producano valore concreto e un avanzamento culturale riconoscibile.
A partire da qui, si definiscono regole semplici e ruoli chiari per qualità, sicurezza e tracciabilità, si misurano adozione e risultati, e si scala per iterazioni brevi estendendo pratiche e responsabilità a più team e domini.
La trasformazione non è mai lineare, ma questo approccio consente di apprendere rapidamente, correggere la rotta e consolidare nel tempo un modo di lavorare in cui i dati non sono un sottoprodotto dei sistemi, bensì la materia prima di decisioni migliori.
Conclusione
La cultura del dato non è un progetto una tantum né un tema riservato agli specialisti: è un modo di lavorare che unisce leadership e pratiche quotidiane, responsabilità diffuse e strumenti utilizzabili, apertura e controllo.
Quando l’organizzazione smette di tollerare l’imprecisione, collega davvero i dati alle decisioni e accetta di rimettere in discussione abitudini consolidate alla luce dell’evidenza, la cultura del dato diventa concreta e produce risultati visibili nei processi, nella qualità delle scelte e nella capacità di adattarsi ai cambiamenti.
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