Diagnosi e cura della mastocitosi: perché l’equipe multidisciplinare fa la differenza

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Dott. Marco Frigeni (Bergamo): “Grazie ad una rete multidisciplinare il paziente ottiene risposte più rapide e un percorso di cura lineare, senza doversi orientare tra consulti frammentati”

La mastocitosi è una malattia rara, di natura clonale (cioè nasce da una singola cellula mastocitaria che ha subito una mutazione genetica, da cui si sviluppano poi tutte le altre cellule alterate), caratterizzata da una proliferazione anomala e accumulo di mastociti (cellule del sistema immunitario) in vari tessuti e organi, come cute, midollo osseo, fegato, milza, tratto gastroenterico e linfonodi. Le forme cliniche sono molto eterogenee. Si va da manifestazioni prevalentemente cutanee, specie nei bambini, a forme sistemiche negli adulti che possono essere indolenti ma anche aggressive. Le stime indicano che la mastocitosi sistemica negli adulti ha una prevalenza nell’ordine di 0,9-1,7 casi ogni 10.000 persone in Europa.

La presenza sul territorio di centri di riferimento è fondamentale per i pazienti, che possono accedere a diagnosi più rapide e accurate, a terapie appropriate, follow-up costante e, soprattutto, a un approccio multidisciplinare che coordina competenze di ematologia, allergologia, dermatologia, gastroenterologia, ecc. I centri specializzati, poi, molto spesso collaborano in rete per condividere dati, linee guida e risorse, per migliorare la qualità dell’assistenza e della ricerca.

Ne parliamo con il Dott. Marco Frigeni, Coordinatore Gruppo Multidisciplinare per la diagnosi e la cura della Mastocitosi Sistemica e dirigente medico presso la SC di Ematologia ASST Papa Giovanni XXIII - Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo 

Dott. Frigeni, come è nato il gruppo multidisciplinare per la mastocitosi?

Il gruppo è nato, come spesso accade, da un bisogno concreto. Un paziente che stavamo valutando per un sospetto di altra malattia ematologica presentò all’esame istologico della biopsia osteomidollare dei reperti compatibili con una diagnosi di mastocitosi sistemica associata. Poiché questo accadeva nel periodo subito dopo il COVID, intorno al 2020, il mio primario, il Prof. Rambaldi, chiese se qualcuno di noi fosse interessato a iniziare a occuparsi di questi pazienti, anche per evitare loro lunghi spostamenti verso centri di riferimento spesso lontani da casa. Di fronte a questa richiesta le mie riflessioni sono state due. Da un lato, qui a Bergamo, in ematologia, abbiamo già un laboratorio ultraspecialistico, con tutti gli strumenti di diagnostica avanzata necessari per la diagnosi di mastocitosi sistemica. Dall’altro, avevo fatto la specializzazione a Pavia, che è uno dei grandi centri italiani di riferimento per questa patologia. Non me ne ero mai occupato direttamente, ma durante il percorso formativo mi era capitato di seguire pazienti con mastocitosi sistemica. Insomma, conoscevo la malattia e ne riconoscevo l’importanza. Sulla base di questi due elementi, ho quindi accettato l’invito del professore a occuparmi di questa patologia”.

Quali figure professionali ne fanno parte?

“La ricerca di un team multidisciplinare, indispensabile per una patologia come questa, è partita un po’ dal basso. Ho iniziato a chiedere collaborazione agli altri specialisti coinvolti e, tenendo viva l’attenzione sul tema, sono arrivati anche alcuni eventi favorevoli. Ad esempio, una collega allergologa mi ha coinvolto in un suo seminario, lo stesso è accaduto con i colleghi di anatomia patologica e dermatologia. Da queste occasioni, grazie alla disponibilità e alla condivisione, è nata anche una stima reciproca e la voglia di collaborare. Così si è formato quello che oggi è il nostro team. Per la parte ematologica ci sono io. L’allergologa di riferimento è la dott.ssa Giuseppina Manzotti, che lavora alla Clinica Palazzolo (Bergamo), ma è per noi un punto di riferimento stabile. Per la dermatologia il collega è il dott. Andrea Locatelli, mentre per l’anatomia patologica collabora il dott. Andrea Gianatti, primario della struttura. Infine, quando serve, coinvolgiamo anche i colleghi di endocrinologia, in particolare per i casi di osteoporosi. In questo ambito non abbiamo una figura di riferimento unica, ma possiamo contare sulla disponibilità dei professionisti dell’unità a valutare i pazienti che ne hanno bisogno”.

Quanti pazienti seguite attualmente e in che modo li accompagnate dalla diagnosi alla gestione a lungo termine della malattia, comprese le terapie e il follow up?

Attualmente seguiamo circa 30 pazienti con mastocitosi sistemica, considerando che abbiamo iniziato nel 2020. La maggior parte è stata diagnosticata qui a Bergamo, con una media di circa 5 nuove diagnosi ogni anno. Alcuni pazienti erano già seguiti in altri centri di riferimento, ma hanno chiesto di trasferirsi da noi per avere un punto di riferimento più vicino a casa. Il percorso è stato pensato come integrato fin dall’inizio. Quando c’è un sospetto diagnostico, il paziente è indirizzato nel nostro centro con precisi riferimenti. Per la diagnosi, si esegue la valutazione midollare e spesso discutiamo i casi anche con l’anatomopatologo, per arrivare a una diagnosi davvero integrata. Una volta confermata, parte la presa in carico. La prima fase è innanzitutto educativa. Spieghiamo ai pazienti quali sono le implicazioni della malattia e le eventuali terapie necessarie. C’è anche un importante lavoro educativo sul riconoscimento e la gestione dei sintomi, compreso l’uso dell’adrenalina autoiniettabile. Vengono quindi richiesti gli esami per la stadiazione e la stratificazione prognostica. Da lì si impostano eventuali terapie e il successivo follow-up. Dal punto di vista terapeutico, nel nostro centro sono disponibili tutte le opzioni oggi approvate, inclusi i farmaci più innovativi che negli ultimi anni hanno cambiato la gestione della patologia, come midostaurina e avapritinib. Per quanto riguarda il follow-up dei singoli specialisti, l’organizzazione sanitaria non sempre consente di concentrare più visite nello stesso giorno. La gestione però resta integrata e il paziente sa di poter contare su un percorso coordinato. Per la parte terapeutica e per i controlli, il riferimento resta sempre l’ospedale di Bergamo, con il supporto delle figure specialistiche coinvolte”.

Quali sono, secondo la vostra esperienza, i vantaggi concreti di un lavoro di squadra tra specialisti per migliorare la qualità di vita dei pazienti?

Il grande vantaggio, naturalmente, è per il paziente. Si trova davanti a un team di specialisti che, pur occupandosi ognuno della propria area, sono coordinati e sanno dialogare tra loro. Ognuno conosce il contributo che può dare l’altro e sa come il proprio lavoro possa facilitare quello dei colleghi. Ciò si traduce in risposte più rapide, più complete e in un percorso più lineare. Avere una rete multidisciplinare ci permette di “parlare la stessa lingua” su una patologia che spesso è poco conosciuta. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di frammentare il percorso tra consulti isolati, che talvolta possono anche risultare fuorvianti se manca una competenza specifica sulla malattia. In questo modo il paziente perde meno tempo a cercare da solo dove rivolgersi, sia per arrivare alla diagnosi sia, una volta ricevuta, per affrontare i controlli di follow-up o le terapie. Sapere che esiste già una rete strutturata con specialisti identificati riduce l’incertezza e accelera tutto il percorso di cura”.

Siete in collegamento con altri centri dedicati alla mastocitosi per collaborare anche in termini di ricerca cinica, non solo di assistenza?

“Come spesso accade nelle patologie rare, avere una rete è fondamentale. Noi facciamo parte della RIMA, la rete italiana della mastocitosi, con la quale collaboriamo anche al nuovo registro nazionale. Questo strumento ci permetterà di raccogliere dati a livello nazionale e condividerli. È un passo decisivo per conoscere meglio la malattia e offrire ai pazienti risposte sempre più precise e concrete. Allo stesso tempo, la rete consente ai centri più piccoli di sapere a chi riferire i pazienti in caso di sospetto diagnostico. Anche sul fronte della ricerca il ruolo della rete è centrale. All’interno della RIMA ci sono progetti clinici, come il registro stesso. Inoltre, la rete permette una più rapida circolazione delle informazioni in merito, ad esempio alla disponibilità di studi sperimentali. Se, per esempio, un paziente seguito da me può beneficiare di un nuovo farmaco disponibile in un altro centro mi sarà più facile saperlo e potrò quindi riferirlo ai colleghi per una valutazione, come peraltro è successo recentemente. La rete, dunque, garantisce la possibilità di offrire più facilmente ai pazienti terapie innovative anche quando non sono seguiti direttamente nei centri in cui il trial clinico è attivo. Aggiungerei solo una riflessione: creare nuove collaborazioni tra più specialisti per occuparsi di patologie rare e complesse rappresenta un beneficio non solo per i pazienti ma anche per noi medici. In un contesto che a volte rischia di favorire l’individualismo, il lavoro multidisciplinare diventa non solo indispensabile, ma anche più stimolante. In fondo, ci si rende conto che il modello di collaborazione che nasce dalla gestione di malattie rare dovrebbe essere esteso anche al resto della pratica clinica. È una scoperta che considero uno degli aspetti più interessanti e arricchenti di questo percorso”.

Recapiti
info@osservatoriomalattierare.it (Ivana Barberini)