Dobbiamo essere felici, ma non ciechi - Azione Cattolica Italiana

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Dobbiamo essere felici, sì. Felici perché la carneficina è cessata, perché la tregua è stata firmata, perché – almeno per un po’ – i bambini di Gaza potranno dormire senza il boato delle bombe e svegliarsi con un pezzo di pane. Dobbiamo essere felici perché il sangue, dopo due anni di orrore, ha smesso di scorrere.

Tutto era cominciato quel 7 ottobre. Quando il terrore colpì Israele con una ferocia che il mondo non potrà dimenticare: oltre 1200 persone trucidate dai miliziani di Hamas, in gran parte civili inermi. La risposta del governo Netanyahu è stata implacabile: più di 67.000 palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza, una popolazione stremata, bambini un terzo dei morti. Dobbiamo essere felici perché, per la prima volta dopo due anni di lutti, le armi tacciono. Ma non possiamo non chiederci perché il mondo si sia mosso soltanto adesso.

Forse perché ognuno ha il suo tornaconto da questa tregua. Gli Stati Uniti, che avevano bisogno di mostrare un successo diplomatico, anche minimo, in una regione dove la loro influenza si è progressivamente logorata. I Paesi arabi – Egitto, Qatar, Turchia e Arabia Saudita, in particolare – che da mesi giocano una partita doppia, cercando di conciliare le proteste delle proprie opinioni pubbliche con gli interessi strategici che li legano a Washington e a Tel Aviv. Persino l’Iran, padrino politico e militare di Hamas, sembra avere interesse a congelare il conflitto per non vedere compromesse le proprie alleanze con la Russia e con la Cina.

Ognuno, in fondo, si muove per sé. E ancora una volta, la Palestina resta il campo su cui gli altri esercitano le proprie ambizioni. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, quella terra sembra appartenere a tutti tranne che ai palestinesi.

Eppure, se dobbiamo essere felici oggi, lo dobbiamo non alle diplomazie ma ai popoli. Alle piazze colme, alle università che hanno protestato, alle voci di chi – in tutto il mondo – ha denunciato il massacro e ha costretto i governi a uscire dal silenzio. È la società civile che ha spinto il mondo politico a un passo avanti. Due anni di mobilitazioni, di appelli, di indignazione pubblica hanno scosso anche le coscienze più dure. Nei Paesi arabi la vergogna per l’impotenza dei propri regimi ha incrinato il consenso dei satrapi, e la causa palestinese – da tempo usata come strumento retorico – è tornata a essere una ferita viva.

Sì, dobbiamo essere felici per questa pace che trema come una fiammella al vento. È una pace fragile, imperfetta, ingiusta. Ma è pur sempre pace. Una tregua che dovrà misurarsi con il ritiro israeliano, con il difficile disarmo di Hamas e con la ricostruzione di un tessuto umano devastato. Una pace che vive sul filo della diplomazia americana. Quella del presidente Trump – novello Chamberlain – pronto a scendere dalla scaletta del suo aereo sventolando un accordo di pace che difficilmente potrà saziare gli appetiti di Israele su Gaza e sulla Cisgiordania.

La geopolitica del Medio Oriente sta cambiando, ma il terremoto non è finito. L’Iran, pur provato dalle sanzioni e dai colpi inferti da Israele ai suoi alleati – Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen, e le milizie sciite in Iraq e Siria – resta il principale polo di resistenza all’asse israelo-americano. La Turchia di Erdogan, oscillante tra Nato e Mosca, mira a presentarsi come potenza mediana capace di parlare con tutti e con nessuno, cercando di riaccreditarsi come difensore dei musulmani. L’Arabia Saudita, che sognava la normalizzazione con Israele, ha dovuto fare i conti con un’opinione pubblica interna che non accetta il silenzio davanti ai bambini di Gaza.

Sul fondo, si ridisegna l’ordine mondiale. Gli Stati Uniti tentano di conservare la centralità del proprio ruolo, ma la guerra di Gaza, come quella in Ucraina, ha mostrato la fatica dell’Occidente nel tenere insieme principi e interessi. E, soprattutto, nel tenere in piedi un’alleanza, quella tra Usa e Ue, minata dalla guerra dei dazi e dal ridisegno delle spese militari in seno alla Nato.

Mentre l’Africa – con la guerra civile in Sudan, Boko Haram in Nigeria, i conflitti etnici e di potere in Repubblica Democratica del Congo, Mali de Etiopia – attraversata da colpi di Stato e nuove dipendenze economiche – diventa sempre di più il terreno fertile di un cinismo globale dove la misura di tutto non sono i diritti, ma gli affari.

Dobbiamo essere felici, dunque, ma non ciechi. Felici perché, almeno per un po’, non cadranno più bombe e i bambini potranno mangiare. Ma consapevoli che la pace, se non nasce dalla giustizia, resta solo una tregua. E che una tregua, per diventare pace vera, deve prima guarire la verità.

Recapiti
Antonio Martino