Paura di candidarsi? Come trasformare la paura in una maestra - Piano C

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articolo formativo a cura di Cristina Coppellotti - Responsabile della Formazione, Sviluppo di Carriera, Diversity & Inclusion @Piano C

Paura di candidarsi e paura di non essere abbastanza

C’è un tipo di paura che conosco bene: la paura di espormi.
Non solo la paura di candidarsi a un lavoro o farmi valutare, ma di metterci la voce, il volto, le idee.
Anche se mi capita di farlo spesso, ogni volta che parlo davanti a un gruppo o tengo una formazione, la sento arrivare: il battito che accelera, il pensiero che dice “e se non bastasse quello che dirai?”.
Per molto tempo ho cercato di scacciarla. Poi ho capito che non serve eliminarla, serve tradurla in qualcosa che mi aiuti a muovermi.

La mia traduzione, spesso, è questa: imparare.
Imparare è il mio driver motivazionale, la chiave che mi fa attraversare la paura.
Quando mi ritrovo bloccata dalla paura, mi ripeto: “Potrò sbagliare, ma mi porterò a casa qualcosa.”
E ogni volta è così.
You live, you learn. 

Ringrazio Alanis per questo piccolo mantra (e sì, la perdono anche se ha osato far cantare la prima strofa di Ironic a Laura Pausini nell’ultimo suo concerto a cui sono stata).

La prima volta che l’ho capito davvero avevo vent’anni.
Ero andata, un po’ titubante, con due amici a fare bungee jumping. Ricordo ancora il momento prima del salto: le gambe rigide, il respiro corto, la mente che gridava “no”.
E poi, dopo, il sollievo, l’adrenalina, la sensazione nitida di aver superato un confine.

Qualche settimana dopo avevo l’esame di Biologia, uno di quelli temuti da tutti, con la prof cattivissima che promuoveva una persona su dieci.
Ero già stata bocciata una volta, e la volta dopo non mi ero presentata, ma stavolta, mentre la prof chiamava il mio cognome, mi sono detta: “Se ho saltato da un ponte, posso anche fare questo.”

Non era assenza di paura, perché quella c’era ancora, eccome, ma c’era anche una nuova fiducia.

Quello che ho imparato non era solo che si può vincere una paura, ma che ogni volta che la attraversi, ti alleni per le successive e che affrontarne una cambia il modo in cui guardi tutte le altre. È come se ogni salto, reale o simbolico, lasciasse una traccia di fiducia nel corpo.

Quell’esperienza mi ha anche fatto capire che a volte la paura non è un segnale di debolezza, ma un invito. E mi ha fatto venire voglia di capirla meglio — da dove nasce, cosa vuole dirci, perché a volte ci blocca e a volte ci spinge avanti. Il senso della paura, insomma.

Vuoi sbloccare le tue paure del colloquio? Dai un’occhiata alla mia consulenza targata Piano C: Cosa dire al colloquio di lavoro – Allenati a raccontare chi sei per non farti più cogliere impreparata.

Il senso biologico della paura

La parola paura deriva dal latino pavor, pavoris, “tremore, spavento”, e dal verbo pavere, “tremare, essere scosso, temere”.
Alla radice non c’è tanto un pensiero quanto un gesto corporeo: il corpo che trema, che si ferma, che si prepara. La parola ha conservato questo significato fisico ma ne ha aggiunto uno mentale: non solo tremare davanti a un pericolo reale, ma anticipare con timore qualcosa che non è ancora accaduto.
È la paura “immaginata”, quella che nasce nella mente ma si sente nel corpo.

La paura tra amigdala, battito e reazioni

Dal punto di vista biologico, la paura è un meccanismo di sopravvivenza.
L’amigdala, che è un po’ la nostra sentinella emotiva, rileva il pericolo e attiva il corpo: aumento del battito, respiro corto, rilascio di adrenalina.
È la reazione fight, flight or freeze (combatti, fuggi o immobilizzati).

Oggi, anche se non dobbiamo più scappare dai predatori, la paura si accende davanti a minacce simboliche: un colloquio, un giudizio, una decisione importante.
Il corpo fatica a distinguere tra “tigre” e “colloquio”: reagisce comunque per proteggerci.

La paura ha sempre avuto una funzione sociale e trasformativa.
Nelle società antiche accompagnava i passaggi di vita: nei riti di iniziazione, il timore segnava il confine tra ciò che si conosceva e ciò che si stava per diventare.
Oggi, nelle nostre vite moderne, la paura si riaccende, tra le altre cose, anche davanti a una candidatura, a un colloquio, a un cambiamento professionale.
Ogni volta che affrontiamo un passaggio, il corpo ci avvisa: stai per entrare in un territorio nuovo. E’ come se ci dicesse “Hic sunt leones!” come scrivevano i romani sulle mappe per indicare regioni sconosciute e pericolose.

Il “confidence gap”: dati e implicazioni di genere

Se spostiamo questa riflessione al mondo del lavoro, le cose non cambiano molto: la paura di candidarsi, di affrontare un colloquio, di chiedere una promozione hanno tutte a che fare con il non sentirsi all’altezza.

Le ricerche mostrano che la paura di non essere all’altezza non è solo una questione individuale, ma anche culturale e di genere.

  • LinkedIn Global Gender Insights Report (2019):
    Le donne si candidano al 20% di offerte in meno rispetto agli uomini e lo fanno solo se pensano di possedere il 100% dei requisiti.
    Gli uomini si propongono anche con il 60%.
    Non è mancanza di competenza, perché gli studi ci dicono anche che noi donne ci laureiamo di più, più in fretta e con voti più alti, ma differenza di percezione.
  • Harvard Business Review (Kay & Shipman, 2014, “The Confidence Gap”):
    Le donne tendono a sottovalutare le proprie capacità e ad attendere di sentirsi “pronte” prima di proporsi, mentre gli uomini si lanciano prima.

In sostanza, parlando in generale, la maggior parte delle donne non crede di poter fare qualcosa finché non la fa perfettamente, gli uomini credono di poterlo fare anche se non l’hanno mai fatto.

Sappiamo bene che la situazione del mondo del lavoro in italia mostra grosse differenze in termini di opportunità tra uomini e donne: il tasso di occupazione femminile in Italia è del 52,5%, contro il 70,4% maschile (INPS, 2025).
E quasi una donna su due tra i 25 e i 34 anni è inattiva per motivi familiari o di cura (INAPP, 2024). Chi riesce a rientrare dopo una pausa potrebbe sperimentare un doppio giudizio:
quello esterno (“non è aggiornata”) e quello interno (“non sono più capace”).

Come il linguaggio degli annunci ci scoraggia

Inoltre, molti annunci di lavoro usano solo il maschile e/o usano linguaggio con un tono competitivo — “rockstar”, “ninja”, “ambizioso” “Sotto pressione”… — che scoraggiano invece di accogliere.

Così la paura trova terreno fertile. E la tentazione è quella di rimanere in silenzio, ferme e zitte zitte, senza farci vedere, proprio quando invece sarebbe il momento di farsi avanti.

Le teorie che ci aiutano a capire (e attraversare) la paura

E allora, come possiamo attraversarla, questa paura che ci abita?
Alcune teorie psicologiche ci aiutano a darle forma e senso.

Growth Mindset

Chi ha partecipato ai nostri percorsi o ci segue da un po’, si ricorderà della psicologa Carol Dweck che distingue tra fixed mindset e growth mindset.
Chi crede che le proprie capacità siano innate tende a bloccare l’azione per paura di fallire.
Chi invece le considera migliorabili attraverso l’esperienza affronta la paura come parte naturale del processo.
Molte donne vengono cresciute imparando a essere auto-giudicanti più che coraggiose.
Così, davanti a una sfida, si chiedono: “sono davvero pronta?” invece di “posso imparare?”.

Self-efficacy

Secondo Albert Bandura, la fiducia nasce dall’esperienza concreta: più volte affrontiamo una sfida e ne usciamo un po’ più forti, più cresce il nostro senso di efficacia.
È così che la paura perde potere: non con il pensiero positivo, ma con piccoli atti reali di fiducia in sé.

Antifragilità e apprendimento esperienziale

Decy&Rian ci ricordano dell’importanza della motivazione intrinseca. Quando agiamo per curiosità o desiderio di crescita, la paura può diventare energia.
Quando agiamo per piacere agli altri alla ricerca della loro approvazione, può più facilmente diventare blocco.
Il driver giusto — come per me imparare — riporta la motivazione dentro di noi.

Per David Kolb, che ha teorizzato l’apprendimento esperienziale, si impara in quattro fasi: esperienza, riflessione, concettualizzazione, sperimentazione.
Ogni errore diventa materia viva di apprendimento.

Nassim Nicholas Taleb parla di antifragilità: non solo resistere agli urti, ma crescere grazie a essi. Ogni candidatura, ogni colloquio, ogni nuova sfida è un piccolo stress test che rafforza la fiducia.

Alison Wood Brooks (Harvard, 2014) ha scoperto che dire “I’m excited” invece di “I’m nervous” cambia la risposta del cervello.
Il corpo reagisce inizialmente allo stesso modo, ma la mente diventa in grado di trasformare la paura in curiosità. Proviamoci!

Tradurre la paura: trova il tuo verbo

Ognuna di noi ha un modo diverso di attraversare la paura, una sorta di driver, qualcosa che ci guida. Come dicevo qualche riga più sopra, Il mio verbo è imparare, ma a volte — come quel giorno sul ponte — è anche attraversare: scoprire che ogni volta che affronti una paura, alleni la fiducia per tutte le altre.
Per altre può essere agire, connettere, accogliere, affermare, contribuire o ricomporre

  • Imparare
    “Se mi fa paura, forse posso imparare qualcosa di nuovo.”
    → Per chi trova coraggio nella curiosità e nella crescita.
  • Agire
    “Non devo smettere di avere paura per agire. Devo agire anche con la paura.”
    → Per chi sente fiducia nel fare, anche a piccoli passi.
  • Connettere
    “La paura condivisa perde metà del suo potere.”
    → Per chi trae forza dal confronto, dalle reti, dal sostegno reciproco.
  • Affermare
    “La paura mi mostra dove abita il mio valore.”
    → Per chi vuole trasformare la paura in bussola etica: ciò che fa paura spesso coincide con ciò che conta.
  • Accogliere
    “Non devo cacciarla via: posso ascoltarla finché si trasforma.”
    → Per chi cerca calma più che controllo, per chi sa stare nella vulnerabilità.
  • Contribuire
    “Ogni volta che io provo, apro la strada anche per qualcun’altra.”
    → Per chi agisce per le altre, e trova coraggio nella responsabilità condivisa.
  • Ricomporre
    “Non devo eliminare la paura: posso camminare con lei.”
    → Per chi sente il bisogno di equilibrio, non di negazione.
    La paura resta, ma diventa compagna.

Trovare il proprio verbo significa scoprire come trasformare la paura paralizzante in movimento.

Tradurre la paura è un atto creativo.
Significa riconoscerla, darle un nome, e trasformarla in qualcosa di vivo.

Don Abbondio, nei Promessi Sposi, diceva:

“Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare.”

Non credo avesse ragione.
Il coraggio non si può dare, ma si può allenare e anche un po’ creare.
Nessuno nasce coraggioso: lo si diventa, un passo alla volta, ogni volta che attraversiamo una paura invece di evitarla. Il coraggio non è l’assenza di paura: è la capacità di restare nel tremore e andare avanti comunque.

In fondo, è proprio quando tremiamo che stiamo imparando qualcosa di nuovo.
E quel tremore è la materia prima del cambiamento.

Paura del lavoro

  • Paura di candidarsi – legata alla percezione di inadeguatezza e al perfezionismo. Se non ti senti sicura nella pagina dedicata alle consulenze trovi Check Curriculum Vitae per trovare la risposta al perché non ti chiamano mai ai colloqui e agire di conseguenza.
  • Paura del colloquio – la minaccia di essere valutate come “non all’altezza”, la difficoltà a valorizzarsi, l’ansia per un percorso non lineare o con delle interruzioni importanti. Bisogna imparare a raccontare anche i buchi nel cv, non vederli come mancanze ma come opportunità.
  • Paura di chiedere: una promozione, un aumento, una riduzione oraria.

Dietro ognuna di queste paure c’è lo stesso meccanismo: il bisogno di sentirsi all’altezza e di essere accettate.
E lo stesso antidoto: l’esperienza, la rete, la consapevolezza.
Lavorare sul proprio empowerment.

Strategie pratiche per non farti bloccare dalla paura

  1. Riformula il pensiero
    Da “non ho tutto” a “ho già molto, e posso imparare il resto.”
    Nessuno ha un profilo perfetto. Le aziende sanno che la curiosità è più preziosa della perfezione.
  2. Allenati a candidarti
    Ogni candidatura è un laboratorio, non un giudizio. Scrivere, inviare, ricevere feedback: è così che si costruisce l’autoefficacia.
  3. Raccogli prove di fiducia
    Tieni traccia delle sfide affrontate e vinte: annotare ciò che hai imparato e gestito aiuta a ridimensionare il dubbio.
    È una mappa di fiducia personale.
  4. Cerca una rete
    Le community, le mentor, le colleghe: la paura si riduce quando viene condivisa.
  5. Trasforma la paura in segnale
    Se qualcosa ti fa paura, chiediti: “Perché mi importa tanto?”
    Spesso la risposta è: perché quella cosa ha valore per te.

Il tremore come materia prima del cambiamento

Ricordiamoci che la paura non è lì per fermarci, ma per segnalarci un confine: quello tra ciò che già sappiamo e ciò che possiamo ancora scoprire.
Ogni volta che attraversiamo una paura, costruiamo fiducia.
Ogni volta che tremiamo e lo facciamo comunque, diventiamo un po’ più libere.

E forse, come diceva Anna Freud, quella fiducia non nasce davvero dal nulla:

“I was always looking outside myself for strength and confidence, but it comes from within. It is there all the time.”

È lì, sotto il tremore, pronta a emergere ogni volta che scegliamo di provarci.
La paura non è un solo un segnale di inadeguatezza, ma anche di significato.
Ci mostra, a volte, dove vale la pena andare — anche tremando.

Risorse

https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2014/05/the-confidence-gap/359815

https://www.etimoitaliano.it/2014/11/paura.html

https://www.hbs.edu/faculty/Pages/item.aspx?num=45869

https://libreriamo.it/lingua-italiana/latino-lingua-latina-accezioni-paura/#:~:text=Pavor%2C%20%2Doris,che%20non%20si%20pu%C3%B2%20nascondere.

Recapiti
Fabiola