Il mago ermetico nella tradizione mediterranea: dal Corpus Hermeticum all’archetipo narrativo nella saga “Storia di Geshwa Olers”

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Con questo approfondimento voglio analizzare l’archetipo del mago ermetico attraverso la lente della tradizione filosofico-religiosa mediterranea, affrontando le connessioni che possiamo trovare (o per lo meno alcune di esse) tra il simbolismo di Hermes/Mercurio, il Corpus Hermeticum, la filosofia neoplatonica e la psicologia analitica junghiana. La mia indagine è stata in realtà preliminare alla manifestazione narrativa di questo archetipo nella mia storia fantasy “Storia di Geshwa Olers” (della quale sta per uscire il settimo volume, Il sole sulle bianche torri), esaminando il modo in cui personaggi quali Nargolìan, Milar Curatis, Dišan di Bierno, Onofererne e i maghi dei Diedipreia Fran incarnino le caratteristiche del “mago della parola” e rappresentino la magia come uno strumento di trasformazione interiore.

1. Hermes/Mercurio: il dio della parola e dell’ermeneutica

1.1 Il simbolismo originario

Nella mitologia greco-romana, Hermes (Mercurio per i Latini) è il messaggero degli dèi, ma è anche molto di più. Egli incarna, infatti, il principio stesso della comunicazione, dell’eloquenza e dell’interpretazione. La tradizione classica mette in rilievo che Hermes è il dio che articola il linguaggio comune, colui che dona agli uomini la capacità di nominare le cose e di organizzare rituali sacri. È una figura che sintetizza il potere della parola come strumento di mediazione tra il divino e l’umano, tra il visibile e l’invisibile.

Dal nome di Hermes deriva il termine ermeneutica (dal greco hermeneutikè), l’arte dell’interpretazione e della comprensione dei significati nascosti, una connessione etimologica che non è casuale: proprio Hermes fungeva da interprete (ánghelos, messaggero), traducendo i messaggi degli dèi in forma comprensibile agli esseri umani. Come sottolinea Platone nel Cratilo, Hermes è “dio interprete, messaggero, ladro, ingannatore nei discorsi e pratico degli affari, in quanto esperto nell’uso della parola; suo figlio è il logos” (407e-408a).

1.2 Hermes e la magia della parola

L’aspetto ermetico di questa divinità si manifesta nella capacità di operare trasformazioni attraverso la parola. Il caduceo, simbolo di Hermes, rappresenta il potere di guidare le anime nell’aldilà (psychopompós), oltre che la facoltà di armonizzare gli opposti, di creare equilibrio attraverso la mediazione verbale. Questa caratteristica diventerà fondamentale nella tradizione ermetica successiva, dove la parola pronunciata correttamente assume potere taumaturgico. Aspetto quanto mai importante per la “magia” tutta, ivi compresa quella narrata in Storia di Geshwa Olers.

Nel contesto mediterraneo, Hermes viene sincretizzato con il dio egizio Thot, scriba divino e inventore della scrittura geroglifica. Ed è proprio questa fusione culturale quella che genera la figura leggendaria di Ermete Trismegisto (“tre volte grandissimo”), autore mitico del Corpus Hermeticum, raccolta di scritti filosofico-religiosi dell’epoca ellenistica (II-III secolo d.C.) che hanno profondamente influenzato il pensiero occidentale e del quale ho già parlato in un paio di occasioni (qui, qui, qui e qui).

2. Il Corpus Hermeticum e la tradizione ermetica occidentale

2.1 Origine e natura degli scritti ermetici

Abbiamo già avuto modo di vedere in passato come il Corpus Hermeticum costituisca una raccolta di diciotto trattati (logoi) redatti da autori diversi in un ambiente di cultura greca nutrita di spiritualità egizia (più o meno posticcia), probabilmente circolanti in ambienti neoplatonici tra il I e il III secolo d.C. L’edizione critica di A.D. Nock e A.-J. Festugière, questi testi rappresentano una sintesi sincretica di elementi platonici, neopitagorici, stoici, biblici ed egiziani.

La tradizione ermetica considera anche l’Asclepius, testo fondamentale che descrive pratiche magiche come la telestikè, cioè l’arte di richiamare o imprigionare spiriti angelici o demoniaci all’interno di statue attraverso erbe, gemme e profumi. Questa dimensione operativa della tradizione ermetica è cruciale per comprendere il legame tra teoria filosofica, pratica magica e Storia di Geshwa Olers (vedi, per esempio, nel secondo libro della saga, La faida dei Logontras, le presenze della famiglia Logontras imprigionate nei grit-lah del Maniero).

2.2 La dottrina ermetica: conoscenza e trasformazione

La conoscenza esoterica (la gnosi) che i testi ermetici propongono, si basa su tre principi fondamentali:

  1. la corrispondenza universale: “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto”, secondo la celebre massima della Tabula Smaragdina. Il che vuol dire (tra le altre cose) che il mondo fenomenico e quello spirituale sono speculari e interconnessi;
  2. la trasformazione attraverso la conoscenza: l’ermetismo insegna che la vera sapienza conduce a una metamorfosi interiore dell’adepto, che da essere materiale può elevarsi alla comprensione dei livelli superiori della realtà, principio caro a ogni spiritualità;
  3. il potere della parola sacra: la lingua, quando pronunciata secondo leggi divine, possiede efficacia operativa, capacità di modificare la realtà fisica e spirituale.

Quest’ultimo aspetto collega direttamente la tradizione ermetica alla pratica magica, intesa non come superstizione ma come scienza sacra basata sulla comprensione delle leggi occulte dell’universo.

2.3 La riscoperta rinascimentale

Un passo fondamentale nella ulteriore e recente diffusione dei contenuti del Corpus Hermeticum è costituito dal momento in cui esso fu portato a Firenze nel 1460 e tradotto in latino da Marsilio Ficino (1433-1499) per ordine di Cosimo de’ Medici. Questa traduzione, completata nel 1463, segnò l’inizio del revival ermetico rinascimentale. Ficino concepiva il platonismo come pia philosophia, una rivelazione divina che attraversava Ermete Trismegisto, Platone, Plotino fino al Cristianesimo e anche più indietro, ed era convinto che non vi fosse discrepanza tra l’insegnamento del Vangelo e tale pia philosophia.

Il neoplatonismo fiorentino integrò la tradizione ermetica con elementi pitagorici, cabalistici, alchemici e magici, creando quella che alcuni studiosi hanno definito “magia naturale” rinascimentale, ovverosia l’idea che la natura, correttamente compresa, possa essere manipolata attraverso le analogie cosmiche. Ed è proprio questo modo di concepire la “parola magica” che si trova alla radice della Lingua Onoferica di cui parla Storia di Geshwa Olers.

3. Neoplatonismo e magia: Plotino, Giamblico e la Teurgia

3.1 Plotino e il sistema delle emanazioni

Il neoplatonismo, il cui maggior rappresentante è senza dubbio Plotino (203/205-270 d.C.), rappresenta l’ultima grande sintesi filosofica del mondo antico. La dottrina plotiniana si articola attorno al concetto dell’Uno, principio primo ineffabile e trascendente da cui deriva l’intera realtà attraverso un processo di emanazione (proodos).

Secondo le Enneadi, l’Uno genera l’Intelletto (Nous), che a sua volta produce l’Anima del Mondo (Psyché), dalla quale deriva infine il mondo sensibile. L’obiettivo della filosofia plotiniana è il ritorno (epistrophé) dell’anima individuale all’Uno attraverso l’ascesi contemplativa (theoria) e l’esperienza estatica.

Plotino considerava la theoria filosofica come l’unico vero mezzo per liberarsi dai “sortilegi” o, meglio, dai lacci del mondo materiale. Come testimonia Porfirio (233/234-305 d.C.), suo discepolo, Plotino raggiunse quattro volte nella vita l’unione mistica con l’Uno.

3.2 Giamblico e la svolta teurgica

Con Giamblico di Calcide (250-330 d.C. circa), fondatore della scuola neoplatonica siriaca, il neoplatonismo subisce una trasformazione radicale. Nella sua opera De Mysteriis Aegyptiorum (I Misteri Egiziani), Giamblico sostiene che la filosofia razionale da sola non è sufficiente per raggiungere l’unione con il divino: è necessaria la teurgia, un insieme di pratiche rituali e magiche in parte dedotte dalla tradizione ermetica.

La teurgia giamblichea si basa su alcuni principi fondamentali, tra i quali:

  1. la gerarchia divina: secondo la quale il cosmo è popolato da una moltitudine di esseri divini, semidivini, angeli e demoni che costituiscono catene di mediazione tra l’Uno e il mondo materiale, concetto che influenzerà moltissimo i filosofi successivi, anche cristiani;
  2. l’efficacia dei riti: ovverosia attraverso preghiere, invocazioni, uso di erbe, gemme e profumi consacrati, il teurgo può entrare in contatto con i livelli superiori della realtà, aspetto che condivide con una iniziale trasformazione del cristianesimo gnostico verso un suo utilizzo magico (si vedano i papiri magici con le preghiere “cristiane” trasformate, e ritrovati a Nag Hammadi);
  3. la materia come ricettacolo del divino: laddove, contrariamente al disprezzo plotiniano per la corporeità e passato in alcuni pensatori del primo cristianesimo, Giamblico rivaluta la materia come potenziale veicolo di presenza divina (concetto in realtà fatto proprio da Sant’Agostino – contrariamente a quanto troppo spesso si pensa – che considera la carne come il “mezzo” della salvezza).

Come sottolinea la tradizione neoplatonica successiva, la teurgia rappresenta una sintesi tra l’approccio razionale della filosofia e la dimensione misterica della religione. Questa tensione tra rivelazione e indagine dialettica rimarrà irrisolta fino alla sciagurata chiusura della scuola platonica di Atene nel 529 d.C. per decreto dell’imperatore Giustiniano.

3.3 Proclo e la sistematizzazione finale

Proclo di Costantinopoli (412-485 d.C.), ultimo grande esponente del neoplatonismo pagano, porta alle estreme conseguenze la teologizzazione del platonismo iniziata da Giamblico. Nella sua opera sistematizza una complessa gerarchia metafisica in cui ogni livello di realtà è presieduto da divinità del pantheon ellenico, recuperando così il politeismo tradizionale all’interno di una cornice filosofica monistica.

Per Proclo, i veri agenti della teurgia sono gli dèi stessi, non gli esseri umani: la teurgia è quindi superiore a ogni conoscenza puramente umana. Il filosofo-teurgo diventa così una figura carismatica che, attraverso la magia, può entrare in contatto diretto con le catene divine, affermando la propria superiorità spirituale sugli altri mortali.

4. L’archetipo del Mago nella psicologia analitica di Jung

4.1 Gli archetipi e l’Inconscio collettivo

Carl Gustav Jung (1875-1961) sviluppò la teoria degli archetipi come modelli universali di comportamento che emergono dall’inconscio collettivo, un patrimonio psichico ereditato dall’intera umanità. Tali archetipi si manifestano nei sogni, nei miti, nell’arte e nella religione di tutte le culture.

L’influenza della tradizione ermetica e gnostica sul pensiero junghiano è ben documentata. Jung non si identifica tout court con lo scientismo positivista, ma trae il suo pensiero, oltre che dalla psichiatria ottocentesca, dalla filosofia e dalla letteratura romantica, dalla gnosi, dall’alchimia e dalla tradizione ermetica.

Jung condivide con l’esoterismo alcune idee fondamentali come il principio di corrispondenza (“come sopra, così sotto”), la concezione della Natura come organismo vivente, il ruolo centrale dell’immaginazione creativa. Tuttavia, Jung traduce l’esperienza della trasmutazione alchemica nella più laica “individuazione”, cioè il processo di integrazione della personalità totale, riconducendo il sottofondo comune dei simboli non alle concordanze di una Tradizione primordiale, ma alla teoria dell’archetipo fondata sul metodo comparativo.

4.2 L’Archetipo del Mago: caratteristiche e funzioni

E giungiamo al Mago. Nel sistema dei dodici archetipi elaborato dalla scuola junghiana, il Mago rappresenta il potere della trasformazione e della conoscenza profonda. Le sue caratteristiche principali includono. Ha padronanza della conoscenza esoterica e delle leggi universali, capacità di operare trasformazioni nella realtà attraverso volontà e comprensione, visione penetrante oltre le apparenze, eloquenza e potere della parola, oltre che capacità di mediazione tra mondi diversi (materiale/spirituale, conscio/inconscio). Però il Mago è anche caratterizzato da alcuni aspetti negativi (che Jung categorizza con il concetto di Ombra): una certa arroganza intellettuale, la manipolazione degli altri, l’isolamento dalla comunità, l’abuso di potere e la credenza nella propria superiorità, tutti aspetti che ritroviamo in modo particolare in Storia di Geshwa Olers, nel protagonista principale della magia, ovverosia nel suo creatore, Onofererne.

Il Mago è essenzialmente ambiguo: può essere Merlino che guida con saggezza, o può trasformarsi nel mago oscuro che usa la conoscenza per fini egoistici. Questa dualità riflette la tensione intrinseca della conoscenza esoterica, che può elevare o corrompere.

4.3 Il Mago è signore del Logos

Nel pensiero junghiano, il Mago incarna il principio del Logos, che è la parola creatrice, il pensiero che ordina il caos in cosmo. Ed è proprio questa caratteristica a collegarlo direttamente a Hermes del quale abbiamo parlato all’inizio, dio dell’eloquenza e padre del logos secondo la tradizione platonica.

Il Mago comprende, infatti, che la realtà può essere modificata attraverso il linguaggio simbolico, attraverso formule, incantesimi, invocazioni. Se vogliamo, come ho avuto modo di argomentare in un articolo pubblicato sulla Rivista di Ascetica e Mistica, non si tratta di superstizione: il linguaggio magico agisce sulla psiche profonda, riorganizza le strutture archetipiche, crea nuove possibilità di essere. Qui puoi trovare quell’articolo. Ma ne parlo anche qui e qui.

Come osserva Jung nel suo studio sull’alchimia, il processo di trasformazione magica è essenzialmente un processo di trasformazione interiore: “La trasmutazione dei metalli è una proiezione della trasmutazione dell’

Recapiti
Fabrizio Valenza