«Ai tavoli dei negoziati non manchi la discussione del rapporto tra cibo e crisi climatica, come richiesto nella dichiarazione inviata da Slow Food ai ministri di vari Paesi che prendono parte all’incontro»
Oggi inizia a Belém la COP30, l’incontro delle Nazioni Unite sul clima, che durerà fino al 21 novembre dopo due giorni di vertici tra i leader mondiali. Questa conferenza nasce intrisa di simbolismo: si tiene dieci anni dopo lo storico Accordo di Parigi – che indicava la rotta per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi – trenta anni dopo la prima COP e ottanta dalla nascita delle Nazioni Unite. Inoltre si svolge in Brasile, dove nel 1992, con il Summit di Rio de Janeiro, lo sviluppo sostenibile entrò nell’agenda politica mondiale. E non in un luogo qualunque del Brasile, bensì nello stato di Parà nel cuore dell’Amazzonia che nell’immaginario collettivo è visto come il cuore verde del pianeta, simbolo universale di vita e della causa ambientale – come ha ricordato il presidente Lula nel suo discorso di apertura.
L’urgenza climatica non tollera il negazionismo
Eppure una COP dei simboli non basta. Lo dico con convinzione in un momento in cui il multilateralismo perde efficacia e la crisi climatica viene strumentalizzata come tema ideologico. Durante l’ultimo Consiglio europeo, la premier Meloni ha definito alcune misure del Green Deal “follie verdi” o “ambientalismo ideologico”, mentre in occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite Trump ha liquidato le rinnovabili come “patetiche”, negando perfino l’esistenza dell’impronta ecologica e mettendo così in mostra un negazionismo travestito da patriottismo che ridicolizza l’urgenza climatica. Né Meloni né Trump erano tra i 57 capi di Stato (in ogni caso si tratta della partecipazione più bassa degli ultimi anni), che hanno preso parte al vertice dei leader dei giorni scorsi. L’Italia era rappresentata dal ministro Tajani, insieme a 39 ministri di altri Paesi, mentre gli Stati Uniti, coerentemente con la decisione di Trump di uscire dall’Accordo di Parigi, erano del tutto assenti.
Ecco perché abbiamo bisogno di una COP30 ambiziosa
Poiché i simboli sono un bell’elemento di forma, ma non assicurano nulla nella sostanza, guardiamo alle premesse di questo incontro. Il nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, pubblicato pochi giorni fa, riporta una storia che conosciamo fin troppo bene: la distanza tra promesse e realtà resta enorme. Il pianeta viaggia verso un riscaldamento compreso tra 2,3 e 2,5 gradi e nonostante le emissioni previste siano in calo del 15% entro il 2035, per restare nei limiti di temperatura dell’Accordo di Parigi, non basta, bisogna registrare una diminuzione di almeno il 55%. Per tentare di colmare il divario tra promesse e realtà la COP30 dovrà dimostrarsi ambiziosa nel dare seguito alle principali eredità delle Conferenze precedenti: il fondo perdita e danni a favore dei paesi in via di sviluppo (COP27 di Sharm el Sheik), la necessità di allontanarsi dall’uso dei combustibili fossili (COP28 di Dubai) e la finanza climatica (COP29 di Baku).
I sistemi alimentari sono causa e vittima della crisi climatica
Se queste sono le traiettorie generali, dal punto di vista delle tematiche concrete auguro che ai tavoli dei negoziati trovi posto la discussione del rapporto tra cibo e crisi climatica; ben evidenziato in una dichiarazione inviata da Slow Food ai ministri di vari Paesi che prendono parte alla COP30. Proprio nella foresta amazzonica questa relazione trova concretezza ogni giorno. I sistemi alimentari sono al tempo stesso causa e vittima della crisi climatica. Causa, perché l’agricoltura industriale e gli allevamenti intensivi (entrambi molto presenti in Amazzonia), producono il 37% delle emissioni globali di CO₂, distruggendo foreste e biodiversità, consumando suolo e acqua. Vittima, perché la crisi climatica colpisce prima e più duramente chi produce cibo specie nel Sud del mondo, o chi, come i popoli indigeni, ha una relazione pressoché simbiotica con la natura.
Va inoltre detto che dal punto di vista dell’alimentazione, il Brasile di Lula, in questo momento, sta dimostrando un grande impegno: a giugno 2025 cioè due anni dall’inizio della sua presidenza, attraverso politiche pubbliche serie e mirate che hanno ridotto dell’85% l’insicurezza alimentare grave, è riuscito a far uscire il paese dalla mappa della fame delle Nazioni Unite. Il Brasile poi è anche la casa del Movimento Sem Terra, un movimento contadino tra i più vitali del pianeta che mostra come l’agroecologia – ossia un approccio all’agricoltura che rispetta le risorse naturali, la biodiversità, il benessere animale – e la giustizia sociale siano due facce della stessa medaglia.
Non ci sarà infatti giustizia climatica senza giustizia alimentare e sociale. Serve una transizione agroecologica che abbandoni l’uso di combustibili fossili in agricoltura (presenti in primis in pesticidi e fertilizzanti), una sovranità alimentare che restituisca ai popoli il diritto di decidere come produrre e consumare e la tutela delle filiere locali, delle persone che le lavorano e della biodiversità di colture che le ha caratterizzate per secoli.
Basta promesse, serve un impegno concreto
Sul fronte della finanza climatica, l’obiettivo è mobilitare 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per sostenere la transizione nei Paesi in via di sviluppo. Ma il punto non è solo quanti soldi servano, bensì come vengano spesi. Oggi la finanza per l’adattamento, quella che protegge sistemi agricoli, comunità rurali e territori, è quasi inesistente perché non genera profitti immediati. Mentre cresce chi è disposto a investire nel ripristino dei danni con imprese che guadagnano cifre da capogiro nella ricostruzione dopo gli eventi estremi. Ricostruire è doveroso, ma dovremmo investire anche per evitare che accada, sostenendo mitigazione e prevenzione. L’adattamento, poi, va gestito con intelligenza per evitare il maladattamento: non basta piantare alberi se non sono specie native, o irrigare di più durante le siccità prosciugando le riserve.
Senza un concreto impegno pubblico e multilaterale, che è ciò che da trent’anni a questa parte demandiamo alle COP, il divario di coerenza tra promesse, bisogni e allocazione delle risorse, continuerà ad allargarsi diventando la nostra rovina. Il clima, infatti, non è un capriccio progressista: è una necessità per la sopravvivenza stessa delle economie, dell’agricoltura, della salute pubblica. È una questione che riguarda tutti noi, specie umana tra le altre, che ancora dipende dalla Terra per poter vivere.
Carlo Petrini
da La Stampa del 10 novembre 2025