Negli ultimi anni l’attivismo e il volontariato giovanile hanno assunto forme nuove, meno legate alla militanza ideologica e più connesse alla ricerca di senso, di efficacia e di impatto concreto. I giovani che oggi si impegnano non lo fanno solo per “aiutare”, ma per sentirsi parte di una comunità che cambia, per contribuire con gesti reali a un mondo che sentono fragile e incerto. Il loro attivismo è spesso fluido, temporaneo, ma nasce da un’urgenza profonda: dare significato alla propria presenza nel mondo.
In un’epoca in cui le grandi appartenenze sembrano dissolversi, il volontariato e l’attivismo diventano linguaggi nuovi per dire “io ci sono”. Dietro un gruppo che pulisce una spiaggia, una campagna online per i diritti o un’iniziativa di quartiere c’è un bisogno di appartenenza, di riconoscimento reciproco e di costruzione di futuro. Sono esperienze che intrecciano altruismo e auto-realizzazione: il desiderio di fare qualcosa per gli altri e quello di scoprire chi si è.
Il volontariato, nell’esperienza di molte persone, tende soprattutto a sostenere e prendersi cura: risponde a bisogni immediati, allevia fragilità, costruisce legami di solidarietà. Ma per molti, e nella sua interpretazione più alta e completa, nasce anche da una spinta trasformativa: non si limita ad aiutare, ma vuole cambiare le cause dei problemi, rimettere in discussione le regole, interpellare le istituzioni. L’attivismo, invece, ha sempre questa tensione verso il cambiamento. Ed è sulla base di questa motivazione che spesso volontariato e attivismo si incontrano, perché chi aiuta finisce per domandarsi “perché esiste quel bisogno”, e chi protesta impara che ogni cambiamento passa anche dal prendersi cura.
Per questo il mondo adulto dovrebbe guardare a queste forme di impegno non con nostalgia o sospetto, ma come a un terreno di dialogo. Spesso gli adulti chiedono ai giovani di partecipare, ma poi ne controllano i tempi e i modi. Eppure la partecipazione non si insegna: si rende possibile. Si coltiva creando spazi veri, dove le idee dei ragazzi possano contare, dove la fiducia venga prima della delega.
Servono occasioni flessibili, inclusive, concrete: progetti che permettano di sperimentare, di vedere i risultati, di crescere. Ma serve anche una dimensione simbolica: il riconoscimento che il volontariato non è un “servizio utile”, ma un atto politico nel senso più alto del termine, un modo di stare nel mondo insieme agli altri, di prendersi cura, di esercitare democrazia quotidiana.
Promuovere l’attivismo giovanile significa dunque accettare la sfida del cambiamento reciproco, come il CNCA sta provando a fare anche grazie al progetto “Giovani VoCi – Volontari Cittadini”. Non solo accompagnare i giovani, ma lasciarsi trasformare dal loro sguardo. Perché il loro modo di partecipare – meno ideologico, più esperienziale, più emotivo – è anche un invito a riscoprire il valore della comunità.
In fondo, ogni giovane che si mette in gioco ci ricorda che la cittadinanza non è uno status, ma un gesto: quello di esserci, insieme, dove il mondo chiama.
Caterina Pozzi, presidente CNCA
Post Views: 9