Nell’Europa ridisegnata dal Congresso di Vienna, il primo ministro francese il duca di Richelieu esclamava che sul continente erano sei le potenze che mantenevano l’equilibrio politico: «Gran Bretagna, Prussia, Francia, Austria, Russia, e Baring». Aldilà dell’autenticità della citazione, essa evidenzia bene come una banca privata fosse considerata non solo un attore economico ma un vero protagonista anche della diplomazia internazionale.
Al pari di Baring solo Rothschild, con succursali dirette da membri della famiglia ma autonome tra di loro, istituite a Francoforte, Vienna, Parigi, Londra e Napoli, poteva competere nel ruolo di banca privata e intimo consigliere delle principali potenze europee. Oltre a dedicarsi a speculazioni su materie prime e investimenti commerciali, Baring and Rothschild divennero le principali banche nel gestire le emissioni obbligazionarie delle principali potenze europee.
Nel corso del diciannovesimo secolo la crescita economica nei Paesi europei e in Canada e Stati Uniti andò di pari passo con la crescita del numero degli attori bancari con l’eccezione del Regno Unito, dove fino al 1826 nessuna banca con più di sei partner poteva operare nell’area di 65 miglia da Londra.
Con il crescere della domanda di capitali, dovuta allo sviluppo industriale, si affermano in tutta Europa banche commerciali ad azionariato diffuso.
Lo sviluppo industriale in settori bisognosi di importanti riserve di capitali – come le ferrovie, le compagnie d’estrazione mineraria, o più in generale i settori ad alto tasso tecnologico dell’industria pesante – resero sempre più centrali le banche commerciali chiamate ad investire i loro capitali nei nuovi settori industriali. Legandosi strettamente ai settori industriali avanzati, le banche commerciali risentirono grandemente del rallentamento della produzione che spesso generava episodi di crisi finanziarie sistemiche.
Il diciannovesimo secolo è costellato di crisi finanziarie come quella del 1825, 1847, 1857, 1873 and 1893 nelle quali investimenti in Paesi emergenti, come nell’America del Sud, e rallentamenti della crescita economica, dopo un periodo di rapido sviluppo economico, terminavano in rovinosi crolli dei mercati azionari.
Alla vigilia del primo conflitto mondiale la Gran Bretagna era di gran lunga il primo Paese al mondo per investimenti all’estero e la piazza di Londra era il mercato finanziario più importante al mondo. La maggior parte degli investimenti britannici si riversava nei Paesi dell’impero e nel continente americano mentre gli investitori francesi, come i loro vicini tedeschi, privilegiavano l’Europa, inclusa la Russia, e il vicino Oriente.
Negli Stati Uniti invece predominava la tendenza ad investire nell’America Latina ed in Europa. Benché Stati Uniti e Germania avessero sopravanzato la Gran Bretagna nella produzione industriale, Londra rimaneva la prima borsa mondiale per importanza grazie alla centralità della City nel sistema dei pagamenti internazionali e della concentrazione di servizi finanziari. Il dominio della City era anche reso possibile dal ruolo della sterlina come valuta di riserva internazionale grazie ad una bilancia commerciale favorevole. Il ruolo centrale della City, la sterlina come valuta di riserva e scambio internazionale costituiscono le principali caratteristiche del primo regime monetario aureo.
La grave crisi degli anni Venti, caratterizzata dal susseguirsi di un boom legato alla ricostruzione per poi finire in un nuovo crash, mise fine al dominio della sterlina e al sistema aureo. Inoltre una serie di collassi finanziari come il fallimento della banca austriaca Creditanstalt (1931) seguita poi dal crollo della tedesca Danat aggravarono la crisi economica europea. Mentre negli Stati Uniti oltre il 40% delle banche fallirono nel corso degli anni Trenta, in Paesi dove le banche potevano sviluppare filiali in diverse aree – come il Canada o l’Australia – il propagarsi della crisi ebbe effetti minori.
La Grande Depressione e le crisi bancarie negli Stati Uniti e nell’Europa continentale portarono ad un nuovo rapporto tra politica e finanza dove lo stato introdusse vincoli più stringenti alle attività bancarie distinguendo la divisione tra attività bancarie commerciali da quelle di investimento. Questo principio era alla base del Glass Steagall Act negli Stati Uniti ma nuovi limiti alle attività bancarie erano al centro di numerose leggi bancarie che vennero approvate tra il 1930 e il 1940 (1934 leggi bancarie in Germania e Svizzera, 1936 nazionalizzazione della Banque de France, 1936 legge bancaria in Italia). Inoltre la Grande Depressione pose fine al dominio della sterlina come moneta di riserva di riferimento e l’abbandono della convertibilità in oro della sterlina nel 1931 segnò la fine del dominio di Londra come piazza finanziaria di riferimento.
Il nuovo ordinamento monetario internazionale prende forma nel 1944 alla conferenza di Bretton Woods. In quell’occasione il dollaro prende ufficialmente il posto della sterlina come valuta di riserva mondiale garantendo la sua convertibilità in oro. Il sistema di Bretton Woods resse fino allo shock petrolifero del 1973 e con la conseguente fine della convertibilità in oro del dollaro. Questo periodo segna una maggiore presenza dello stato nel condurre vari settori strategici dell’economia imponendo vincoli più stringenti all’attività bancaria. Per un quarto di secolo le banche di quasi tutto il mondo operano in uno scenario dove i tassi d’interesse rimangono strettamente controllati e le banche non sono libere di investire in qualsiasi asset. In queste condizioni, se si esclude il fallimento di Herstatt bank nel 1974, il panorama bancario era particolarmente immune da crisi finanziarie.
Gli anni Settanta però si caratterizzano per un serio rallentamento della crescita del prodotto interno lordo delle principali nazioni che devono anche fronteggiare un aumento dell’inflazione in quel fenomeno passato alla storia al nome di stagflation. Di fronte a queste condizioni le banche statunitensi, così come quelle europee e giapponesi, decidono di aggirare i vincoli sui tassi d’interesse (la cosiddetta Regulation Q che impediva alle banche americane di pagare interessi su conti correnti e limitava tassi di interesse su certificati di deposito) attraverso il mercato degli Eurobond.
Questo mercato consisteva in depositi e prestiti in dollari ma al di fuori degli Stati Uniti e in quanto tali non soggetti alle leggi americane che limitavano interessi su conti bancari. Attraverso questo escamotage anche il flusso di petrodollari poteva trovare nuovi utilizzi come finanziamenti diretti o indiretti a Paesi in via di sviluppo.
Il mercato degli Eurodollari passò da $4 miliardi nel 1962 a £216 miliardi nel 1973.
L’espansione del mercato degli Eurobond non rimase senza conseguenze: la grande crisi del debito internazionale del 1982, che colpì in modo profondo Paesi come Messico, Brasile ma anche Paesi dell’Africa come Nigeria e Ghana, era la diretta conseguenza degli investimenti eccessivi attraverso le grandi banche commerciali dei fondi in dollari fuori dagli Stati Uniti e del rialzo dei tassi di interesse voluti dalla Fed guidata da Paul Volcker.
La crisi internazionale del debito continuò per tutti gli anni Ottanta caratterizzati anche dalla crisi endemica dei Savings & Loans che costrinsero il governo federale al più grande intervento dai tempi della Grande Depressione.
Le spinte alla deregolamentazione si diffusero in tutto il mondo dando il via ad una concorrenza tra istituti bancari liberi di assumere nuovi rischi rispetto al periodo del secondo dopoguerra. L’esposizione a maggiori rischi convinse le banche dei Paesi appartenenti al G10 a dotarsi di criteri riguardanti il capitale e le riserve che ogni istituto bancario doveva mantenere.
Nasceva così il primo accordo di Basilea nel 1988 nel quale il capitale delle banche veniva diviso in due livelli (core e tier two) e ogni asset aveva un rischio assegnato: dai meno a rischio (cash e obbligazioni di stato) ai più a rischio (mutui e obbligazioni di Paesi in via di sviluppo). Tale regolamentazione sarebbe poi stata rivista nel 2004 apportando nuove modifiche.
Fiumi di inchiostro sono stati versati sulla crisi del 2007-2008 e sulle responsabilità delle autorità politiche – democratici e repubblicani – per aver allentato la legislazione bancaria e aver favorito l’accesso ai mutui a fasce della popolazione che non potevano in alcun modo restituire il finanziamento ricevuto. Allo stesso tempo, figure di CEO e Chairman finirono sotto i riflettori per i loro anni di guida di istituzioni che avevano ignorato i rischi sempre maggiori ai quali avevano esposto le istituzioni finanziarie. Infine, la crisi aveva messo in luce quanto i paradigmi sia del shareholder value che della razionalità del mercato fossero letture parziali destinate a sprigionare una forza distruttrice ben aldilà del mondo della finanza. Così torna particolarmente attuale la lezione di Karl Polanyi sul radicamento delle élites finanziarie nelle società in cui operano.
La crisi del 2007-2008 ha messo in dubbio la sostenibilità dello sviluppo tumultuoso della finanza sotto le sembianze proteiformi della cartolarizzazione. La caduta di Lehman Brothers e la contrazione dell’economia globale hanno mostrato la fragilità dell’illusione di una finanza che massimizzava utili in nome della razionalità dei mercati, come unico motore per lo sviluppo delle nazioni.
A quasi vent’anni da quella crisi, dopo che altre scosse hanno mandato segnali preoccupanti come Silicon Valley Bank e Crédit Suisse, sembra che quella crisi abbia lasciato in eredità migliori sistemi per controllare crisi di attori finanziari di prima importanza o attori regionali. Questo non toglie che un’altra crisi possa sorgere da un uso esteso di alcune innovazioni tecnologiche applicate alla finanza (stablecoin) oppure dalla fine dell’egemonia di una valuta come il dollaro. Se è difficile prevedere da dove verrà la prossima crisi finanziaria, sarebbe utile far memoria di quelle passate non per imparare passate soluzioni da applicare a nuovi problemi ma per cercare di mettere in discussione quale ruolo debba avere la finanza nelle nostre società permeate dalla complessità ma al tempo stesso incapaci di una visione di insieme che non limiti l’orizzonte della finanza all’esclusiva rendita finanziaria.
Niccolò Valmori è ricercatore presso il Robert Schuman Center, Istituto Universitario Europeo, e il
Dipartimento di Storia Economica della London School of Economics dove ha insegnato “History of
Banking systems”. Dopo il dottorato ottenuto all’Istituto Universitario Europeo ha ricoperto incarichi di insegnamento e ricerca presso numerosi istituti internazionali tra i quali l’Institut d’Études politiques, l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Stanford University, University of Pennsylvania e King’s College, Londra.
Tra i suoi interessi principali l’evoluzione storica dei rapporti tra finanza e politica, oggetto del suo libro Banking and Politics in the Age of Democratic Revolution (Liverpool University Press, 2023).