A 22 anni Giuseppe riscrive una tradizione di famiglia lunga cinque generazioni, simbolo autentico e sincero della ristorazione che resiste
È un giovedì notte, l’orologio segna l’una, in un campetto di Locri ci sono una dozzina di amici che giocano a calcio. Tra di loro c’è Giuseppe Fragomeni, 22 anni, cuoco. «Si esce la notte con gli amici, la notte è nostra, di giorno si lavora, prima la spesa al mattino, poi si cucina a pranzo, dopo si prende un caffè al bar con i ragazzi e la gente del paese, si torna all’osteria e a fine servizio si va in giro a divertirsi. Si dorme un po’ al mattino, ma poco». Beata gioventù.
Ecco la routine quotidiana di un ragazzo che, dopo l’alberghiero, un po’ di esperienze a Roma (gli studi in Accademia Italiana della Cucina e da Trattoria Pennestri) e poi a Bologna (Da Corrado Parisi, nel ristorante Benso), non vedeva l’ora di tornare a Siderno Superiore per lavorare nel locale di famiglia, un bar-trattoria che esiste da più di un secolo, sempre gestito dai Fragomeni: ora, con Giuseppe, siamo alla quinta generazione.
Un borgo arroccato sul mare
Siderno Superiore è il borgo medievale che domina a 192 metri di altezza una piana che dà sul mar Ionio. Un tratto balneabile che negli ultimi anni ha sempre strappato la Bandiera Blu per la qualità dell’acqua e delle spiagge, lungo le quali si è sviluppata Siderno Marina, moderna e ben servita, con più di 16.000 abitanti. Questa è diventata la sede del Comune unico di Siderno, che accorpa anche il borgo vecchio, e così, lassù, oggi non restano che circa 400 anime, tra case disabitate o vuote per gran parte dell’anno, meravigliosi palazzi nobiliari, giardini nascosti, stradine che rendono il piccolo centro, vecchia roccaforte, di una bellezza che rapisce. E dalla piazzetta di fronte all’osteria Zio Salvatore – che sembra proprio essere lì da sempre – si vede il mare a perdita d’occhio. D’estate si allestiscono i tavoli in piazza, sotto belle luminarie, e si può cenare in un ambiente da cartolina.
Ma perché Giuseppe ha scelto di tornare al vecchio borgo, al contrario di molti altri ragazzi che sono andati a vivere altrove e rientrano solo d’estate in visita alle famiglie? Non gli piacevano Roma e Bologna, decisamente più pullulanti di vita e di occasioni? «Qui è la pace. Non ho mai pensato di non tornare. Sì, la grande città ti offre molto, ma non riesco a pensarmi lontano. Ho i miei amici, la mia famiglia, mi piace il lavoro che faccio».
Quando è rientrato a casa aveva imparato come si ottimizza il servizio in cucina e non vedeva l’ora di migliorare, secondo lui, un po’ quei 25 metri quadrati dai quali ogni giorno esce una proposta semplice, casalinga, solida e rigorosamente di terra. In quella cucina, frequentata sin da bambino, mamma Daniela gli ha insegnato i primi rudimenti della tradizione gastronomica locale. Papà – «che ha la testa dura» –, subito non era molto d’accordo sui cambiamenti: l’impresa di famiglia, che a quel punto sembrava aver trovato un suo buon equilibrio, aveva passato qualche momento difficile. Prima con lo sforzo di trasformare nel 1992 in una trattoria vera e propria quello che a tutti gli effetti era un’osteria con bar di paese, dove storicamente si “schiticchiava”, ovvero sbocconcellare e bere in compagnia mentre magari si gioca a carte o a la morra: «Jamu u schiticchiamu cocchi cosa», dicevano gli anziani. Poi, è pure arrivata la pandemia a complicare un quadro delicato, ma con il senno di poi alla fine i piccoli cambiamenti introdotti da Giuseppe, anche con l’aggiunta di qualche semplice piatto, hanno pagato. Oggi fuori stagione si fanno 50 coperti a servizio, e d’estate, approfittando della piazzetta, 150. Un successo che riempie di soddisfazione papà Salvatore, che disturbiamo mentre raccoglie le olive negli oliveti di famiglia, quelli che danno 400 litri d’olio da impiegare esclusivamente in trattoria: «Il padre, quasi da tradizione, non dichiara mai al figlio che è orgoglioso di lui. Non lo faceva anche il mio, ma io lo sono molto di Giuseppe».
Una tradizione di famiglia
Salvatore rappresenta la quarta generazione, quella di un altro cambiamento, nel 1992: «L’osteria la aprì il mio bisnonno nel 1887, nel 1953 il nonno la ristrutturò, ma rimaneva sempre un posto per schiticchiare. In seguito, quando la gestione passò ai miei genitori, il martedì, quando era chiuso, si andava tutti alla casa in campagna con gli amici del locale a fare un po’ di festa. I miei, che sapevano cucinare molto bene, lo facevano per tutti. La voce pian piano si sparse e tutti lodavano i loro piatti, quelli che facciamo ancora oggi come i pomodori arrostiti, le melanzane ripiene, le frittelle di zucca, la capra al sugo e le polpette di maiale». Queste semplici e gioiose specialità si iniziarono pian piano a portare nel locale – allora Siderno Superiore faceva 5000 abitanti – fino a quando decenni dopo la necessità di un’altra ristrutturazione li convinse a mettere su qualcosa di più simile a un ristorante. Salvatore dice di essere fortunato ad avere una moglie come Daniela, compaesana che ci è stato impossibile intervistare, davvero di pochissime parole: «Si dedica anima e corpo al lavoro, mia madre gli ha trasmesso tanto sulla cucina e lei non ha mai mollato neanche un momento, e continua così, ogni giorno».
Una silente spina dorsale, custode di tanta sapienza, passata poi a Giuseppe. Salvatore non è bravo in cucina – dice – e si occupa dell’accoglienza in sala, un lavoro che all’inizio gli pesava un po’ con i suoi orari, visto che fa anche l’olio, il vino della casa che si mesce al locale e in più ha ereditato dal nonno, macellaio, un piccolo salumificio artigianale che arricchisce la totemica serie di antipasti in puro stile calabrese che si mangia di Zio Salvatore. Oggi si dice felice di quel fa. Nel 2023 hanno ottenuto il riconoscimento della Chiocciola nella guida Osterie d’Italia e per l’edizione 2026 Giuseppe ha ricevuto il premio Miglior cuoco giovane.
Il senso più autentico dell’osteria
I Fragomeni con l’osteria sono ciò che tiene viva Siderno Superiore, tra i rimpianti di papà che ha visto il paese spopolarsi in favore di Siderno Marina e le città del Nord; non distanti dalla casa di Michele Bello, uno dei cinque martiri della libertà, i patrioti che nel 1847 precedettero con la Rivolta di Gerace i Moti nel Regno delle due Sicilie; muri segnati dal tempo che raccontano una miriade di storie, tra nobili andati altrove o decaduti. Una Calabria che è piena di questo tipo di ricchezza dimenticata, una delle gemme più preziose e (tenute?) nascoste del nostro Paese.
Giuseppe dice che «è la pace», papà Salvatore sembra contento e appagato, mamma – in silenzio – si capisce che sorregge l’insieme, la figlia Sabrina sta studiando management aziendale a Bologna ma anche lei vuole rientrare presto a dare una mano e sviluppare qualche nuova idea. Intanto, con loro, la zia frigge tutti i giorni in cucina e un amico ventenne di Giuseppe dà una mano.
Le storie delle Osterie d’Italia sono spesso questo, da Nord a Sud e viceversa: vicende di famiglia, una tipologia di azienda in grado di resistere a tutto ed evolvere in meglio, a piccoli e ragionati passi, non privi di asperità. Chi va lassù a Siderno Superiore – e oggi sono tanti – a mangiare uno dei menù più sinceri e autentici d’Italia, alla fine vorrebbe restare lì, dove forse c’è davvero la pace, tra un antipasto infinito e una partita a calcetto, con vista mare.
Carlo Bogliotti, Carlo Petrini
Da La Stampa dell’11 novembre 2025
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