Dopo Lezioni, romanzo accolto con entusiasmo sia dal pubblico internazionale sia da quello italiano, Ian McEwan torna con Quello che possiamo sapere.
Il libro si apre nell’ottobre del 2014: durante una cena tra amici, il grande poeta Francis Blundy dedica alla moglie Vivien un poema che non verrà mai pubblicato e di cui si perderanno le tracce. Un secolo più tardi, in un mondo ormai in gran parte sommerso dopo un Grande Disastro, lo studioso di letteratura Thomas Metcalfe scopre degli indizi che puntano a un intreccio amoroso e criminale. Ma che ne sappiamo degli uomini e delle donne del passato, con le loro passioni e i loro segreti? E che sapranno i nostri discendenti di noi e del mondo guasto che gli lasceremo in eredità?
McEwan affronta questi interrogativi intrecciando mistero, memoria e riflessione sul futuro dell’umanità. Come lui stesso afferma, nelle pagine di Domani: «I libri che abbiamo sul futuro sono per la maggior parte sulla tecnologia e il suo impatto sulla civiltà, io ero più interessato a capire cosa succederà alle università, agli studi umanistici, alla nozione di storia. E poi cosa succederà all’amore, al tradimento, sarà lo stesso? E la mia risposta è sì, la natura umana è una costante potente».
Quello che possiamo sapere diventa così non solo un’indagine sulle ombre del passato, ma anche una meditazione sul modo in cui la nostra epoca sarà ricordata – o forse fraintesa – da chi verrà dopo di noi.
«Dirò soltanto che tutto insieme, prima e seconda parte, Quello che possiamo sapere è un romanzo bellissimo: esperimento di “fantascienza senza scienza”, come lo ha definito McEwan stesso, languida meditazione sulla poesia, serena maledizione contro l’idiozia che sta mandando in vacca il nostro pianeta, impavida dimostrazione del primato della Letteratura sulla Storia ma soprattutto, appena tre anni dopo Lezioni, nuova limpida lezione sull’insostituibilità del romanzo, vivo o morto che vogliate considerarlo».
Sandro Veronesi, Corriere della Sera
«È una prova d’autore, ambiziosa più delle ultime, collegabile a Solar (2010) il suo romanzo di climate fiction, ma decisa a spingersi oltre per dirci che ci aspetta un nuovo diluvio e sull’arca non saliranno gli innocenti, ma gli ignavi. Non sapremo se non leggeremo: c’è un canone nascosto, c’è una prova di colpevolezza che né il dna né le celle telefoniche possono svelare. Occorre uno scritto. McEwan ha provato a darcelo».
Gabriele Romagnoli, la Repubblica
«Torna Ian McEwan al suo meglio, disincantato e ironico, in un romanzo che sembra di fantascienza o distopico, ma che parla invece dell’oggi, di come siamo visti dal futuro, con gli occhi di un professore… è uno libro spiazzante, di quelli su cui si continua a rimuginare. La struggente nostalgia con cui il professor Metcalfe guarda ai nostri anni torbidi e incasinati è metà un monito e metà una riflessione. Un ritratto del XXI secolo che ci fa sorridere, arrabbiare e che dovrebbe riflettere su cosa lasciamo e su come ci vedranno dal futuro».
Caterina Soffici, La Stampa
«McEwan, come solo lui sa fare, scolpisce un intreccio di realismo psicologico, grande freddo della civilizzazione, perfido amore, sordidi istinti, letteratura gloriosa: i paradossi della Storia già visti in Cani neri, l’erosione della Memoria, l’audacia futuristica del suo precedente Solar, infimi omicidi, colpi di scena, e la fragilità delle nostre convinzioni che forse solo in Espiazione aveva dipinto così bene… una spasmodica ricerca negli anfratti più profondi della raison d’être umana. Che tende all’autodistruzione ma mantiene una eccezionale capacità di rigenerarsi. Nonostante l’apocalisse bussi alle porte».
Antonello Guerrera, il venerdì – la Repubblica
«Una sorta di complesso marchingegno, alimentato dal potente combustibile del proprio personale divertimento, ha spinto Ian McEwan a moltiplicare le anse nell’intreccio nel suo ultimo romanzo, per fare spazio alle rispettive storie dei vari personaggi, quasi sempre introdotti per inciso e poi ripresi uno a uno, senza che nulla di quanto è stato annunciato venga mai lasciato cadere; come se lo scrittore inglese avesse sempre davanti agli occhi, appesa al suo prontuario per un romanzo ideale, la famosa pistola di Cechov, che se introdotta in una trama, prima o poi – diceva ai suoi studenti – deve sparare».
Francesca Borrelli, il manifesto
«Un romanzo sul limite della conoscenza e sulla fragilità dell’amore, scritto con la lucidità di chi ha imparato che ciò che vorremmo davvero sapere continua a sfuggirci».
Carlotta Vissani, il Fatto Quotidiano