Mentre scrivo queste righe, nonostante il ritardo di un giorno, la COP30 di Belém non si è ancora conclusa. Da quanto trapela dalle ultime bozze di dichiarazione finale, con ogni probabilità vincerà l’opzione al ribasso. La parola “uscita” dai combustibili fossili è stata rimossa dal testo e sostituita con un più soft e poco significante “allontanamento”; peraltro già menzionato alla COP di Dubai di due anni fa (dove sta il progresso dunque?).

Alla fine, gli unici vincitori della COP30 sono ancora una volta le lobby del profitto. Ma cosa hanno vinto se non la loro e nostra condanna? La loro e nostra distruzione?

Sul fronte della giusta transizione la partita dell’adattamento è stata tre le più delicate. I negoziatori hanno lavorato alla definizione degli indicatori dell’Obiettivo Globale sull’Adattamento, un passaggio potenzialmente storico che inciderebbe sulla capacità concreta dei Paesi di sviluppare sistemi di protezione, prevenzione e resilienza. Ma senza risorse adeguate tutto rischia di trasformarsi nell’ennesimo esercizio burocratico: un elenco di metriche inapplicabili. Analogo discorso vale per il fondo perdite e danni che, con l’attuale dotazione di 700 milioni di dollari, rimane lontano dalla scala necessaria (i danni causati dal recente uragano Melissa in Giamaica sono stati superiori).

Le risorse mancano non perché scarse, ma soprattutto per la distorsione profonda che affligge i negoziati. Basti pensare che un partecipante su venticinque era un rappresentante del mondo dell’industria. Si parla di 1600 persone del settore dei combustibili fossili e 300 dell’agribusiness; cifre che superano di gran lunga il numero dei delegati di quasi tutti i Paesi presenti. C’è da dire che la loro partecipazione non è illegittima, però è sproporzionata e ha influenzato i processi negoziali, assoggettandoli agli interessi di parte anziché al perseguimento del bene comune.

Il discorso alimentare non ha trovato il posto che merita

Soffermandosi sulla questione alimentare il padiglione “Agrizone” è un esempio lampante di quanto appena detto. Sponsorizzato da colossi dell’agribusiness quali Bayer, Syngenta e Nestlé, è stata un’arena del greenwashing che ha celebrato una finta agricoltura sostenibile. Dico questo perché in Brasile il loro modello industriale è responsabile del 74% delle emissioni nazionali di CO₂ e provoca deforestazione, inquinamento ed erosione del suolo da pesticidi, conflitti per l’accaparramento di terre, spesso appartenenti a comunità indigene, e perdita di biodiversità causata dalle monocolture distruttive.

C’è poi una proposta pericolosa che è stata rilanciata a Belém con il sostegno anche del nostro governo: la quadruplicazione entro il 2035 dei biocarburanti. Siccome il 90% dei biocarburanti deriva da colture alimentari, un aumento aggraverebbe la competizione tra cibo ed energia, in un mondo ancora segnato dalla piaga della fame e da prezzi agricoli instabili.

Oltre a quanto citato (in negativo), il discorso alimentare ancora una volta non ha trovato il posto che merita al tavolo dei negoziati. Il percorso su agricoltura e sicurezza alimentare iniziato a Sharm el Sheikh è stato rinviato; non si è parlato di sovranità alimentare, né si è affrontato il nesso tra questo settore e la crisi climatica; di cui né è al contempo vittima e carnefice. Una mancanza grave resa ancora più marcata dai dati del report FAO pubblicato nei giorni della COP. Negli ultimi trent’anni gli eventi climatici estremi hanno causato 3200 miliardi di dollari di perdite al settore agricolo. Su base annuale equivale al 4% del PIL alimentare globale che si smaterializza per via di ondate di calore, siccità, alluvioni e parassiti. L’Africa e ancora più l’Asia sono i continenti in cui si registrano più danni e tristemente sono anche quelli con i tassi maggiori di persone che soffrono la fame.

Un barlume di speranza: il ruolo delle città

Se vogliamo trovare qualcosa che ci dia un po’ di speranza la COP30 ha offerto uno spunto positivo: a Rio de Janeiro 300 leader subnazionali, soprattutto sindaci e governatori, hanno discusso del ruolo decisivo delle città nella sfida climatica. Oggi oltre metà della popolazione mondiale vive in aree urbane, responsabili di due terzi delle emissioni, ma proprio le metropoli stanno mostrando la via. Londra, con la zona a zero emissioni ha migliorato drasticamente la qualità dell’aria, ed entro il 2023 altre 30 città del mondo replicheranno il modello. Parigi ha reso obbligatorio l’uso di cibo biologico e locale negli appalti pubblici per costruire un sistema alimentare più sostenibile. Città del Capo ha dimezzato il consumo idrico con un programma ambizioso che include anche riparazioni gratuite della rete idrica per le famiglie a basso reddito. Secondo il network C40, le città riducono le emissioni pro capite cinque volte più rapidamente degli Stati, dimostrando che la trasformazione è possibile e misurabile e passa dal cambiamento dei comportamenti.

Tutelare la salute del pianeta è l’unica opzione che abbiamo

L’innovazione tecnologica, tanto amata dai leader nazionali, da sola non basta. È necessario costruire un nuovo paradigma di vita su questo pianeta. Senza questo non esiste mitigazione, finanza o adattamento che possano reggere. Ciò non significa rinnegare i progressi compiuti, bensì fare ordine tra le priorità. Da una società centrata sull’economia a una che mette al centro il benessere. I leader indigeni, guidati della loro cosmovisione, a Belém hanno richiamato più volte il concetto di salute planetaria: non esiste salute umana senza salute degli ecosistemi. Tutelare la salute del Pianeta non è un gesto altruista da radical chic, ma è l’unica opzione che abbiamo per garantire la nostra sopravvivenza come specie umana. Non comprendendo ciò, a forza di accordi al ribasso ci stiamo scavando la fossa.

Carlo Petrini
da La Stampa del 22 novembre 2025