Poesia sulla dismorfofobia: “CARNE OSTILE”

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Non è uno specchio, è un vetro nel quale io sono frantumata. Riflette un nemico che la mia malattia ha creato. Tu vedi me, ma io vedo un MOSTRO: un pixel distorto, un chiodo nel petto. E l’occhio si fissa, non sa più distogliere, in cerca del punto da estirpare, da togliere.

Mi dici: “Sei bella.” E il suono è una beffa. La tua verità è solo una staffa che cede al mio peso o al mio viso, cosce, o al naso o…. la mia ossessione martellante. Perché essere oscena, grasse e deforme è la mia unica lezione, l’unica forma che la mente accetta, l’unica immagine che non si proietta oltre il dettaglio che urla, che brucia. La mia pelle è una gabbia, la mia mente è la ciurma che getta l’ancora nel porto dell’errore: io. Non c’è luce, non c’è mai calore.

Provo a vestirmi, ed è sempre un incubo. Provo a sorridere, ma il labbro è stanco. Ogni foto è un assalto, ogni uscita un tormento, MI VERGOGNO DI FARMI VEDERE. Sono schiava del “come” e di ogni tuo commento che tu non farai, ma che io anticipo, immagino. Siamo io e il mio corpo su un foglio di un margine, un confine di vetro. Vorrei fuggire da me, andare indietro, prima che il cervello diventasse prigione, prima che l’ombra prendesse il timone.

E la dismorfofobia è un parassita silente, che vive di sguardi, che mi rende latente. Mi cancella dal quadro, mi sussurra: “Non hai ragione di esistere.” E io annuisco in silenzio piangendo disperata, senza più alcun fiore. Sono l’“architetto” della mia agonia, l’unica spettatrice di questa bugia che è più vera del giorno. Voglio solo un velo, un modo per farmi un contorno che svanisca, che sfumi, che non sia mai visto. Perché in questo corpo, in questo corpo non esisto… Non mi riconosco, non sono io.

Sono disperata in un modo che nessuno può capire tranne chi ci è passato. Ma io non molto e sconfiggerò anche te, maledetta bestia!

CC

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ChiaraSole Ciavatta