Il valore perduto degli hobby

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Quando abbiamo smesso di avere hobby e abbiamo iniziato ad avere “progetti”

C’è un dettaglio che ritorna, come un’eco sommessa, ogni volta che si studiano le vite di chi ha lasciato un segno nel mondo: nessuno di loro era solo il lavoro per cui lo ricordiamo.

Albert Einstein, quando le equazioni non volevano saperne di farsi domare, prendeva il violino. Non per diventare un musicista migliore. Non per fare concerti. Suonava per “allentare” il pensiero, per spostarlo di lato, come si fa con una finestra che non si apre: la tiri da un’altra angolazione e, all’improvviso, scatta.

Virginia Woolf camminava sulle spiagge del Sussex raccogliendo pietre. Le sceglieva, le rigirava tra le dita, le teneva in tasca come promemoria di qualcosa che non sapeva ancora dire. Non c’era un obiettivo, un progetto, una “call to action”. C’erano solo lei, il mare, il peso tiepido di una pietra e la sensazione che, da qualche parte, quel gesto custodisse una forma di silenziosa resistenza alla dispersione.

Winston Churchill dipingeva. Tele di paesaggi, cieli, tramonti. L’uomo che doveva salvare l’Europa dal collasso, nelle pause, si sedeva davanti a un cavalletto e, letteralmente, guardava il mondo prendere colore. Non stava “ottimizzando” nulla. Stava respirando.

Vladimir Nabokov allevava farfalle. Le studiava, le catalogava, le osservava con la stessa cura con cui sceglieva gli aggettivi. Per lui la lepidotterologia non era un diversivo, era un’altra grammatica della bellezza, fatta di ali, venature e metamorfosi.

Marie Curie andava a funghi. Con la stessa curiosità con cui scrutava campioni di uranio, si chinava nel bosco per cercare porcini e finferli. Forse perché la meraviglia non ha gerarchie: la sorpresa di trovare un cappello di fungo sotto il muschio non vale meno di una nuova emissione radioattiva.

Charlie Chaplin collezionava oggetti inutili: bastoni storti, cappelli improbabili, piccoli frammenti di mondo scartati dagli altri. Era convinto che la comicità vivesse nelle crepe, non nei palchi. Nelle cose che non servono a niente, ma raccontano tutto.

Erano hobby.

Quando i passatempi erano ancora tempi che passano

Una volta li chiamavamo così: passatempi. Non “side project”, non “personal branding”, non “secondo lavoro”.

Passatempi.
Cose che non servivano a nulla, se non a farci attraversare il tempo senza esserne travolti.

Un libro letto senza recensirlo.
Un disegno fatto su un tovagliolo.
Una melodia strimpellata male al pianoforte.
Una collezione di sassi, francobolli, biglietti del tram, fogliettini con frasi che non diventeranno mai un romanzo.

Erano luoghi dove non dovevamo dimostrare niente a nessuno.
Spazi dove il tempo smetteva di avere rendimento e tornava ad avere densità.
Zone franche in cui l’anima poteva ricordarsi il proprio ritmo invece di correre dietro a quello degli altri.

Poi, piano, qualcosa si è spostato.

Quando il gioco ha iniziato a doversi giustificare

Non c’è stato un decreto, nessuna data precisa. Solo una trasformazione lenta, come quelle crepe che compaiono sul muro e, finché non le guardi da vicino, ti convinci che ci siano sempre state.

A un certo punto il gioco è diventato produzione.
La passione è diventata prestazione.
Il tempo libero è diventato tempo monetizzabile.

Fare una foto non bastava più: bisognava aprire un profilo.
Cucinare una torta non bastava più: bisognava farne un reel.
Scrivere una frase non bastava più: bisognava trasformarla in contenuto.

Abbiamo smesso di fare le cose per amore e abbiamo iniziato a farle per qualcosa:

  • per crescere
  • per mostrarle
  • per guadagnarci
  • per sentirci migliori, misurabili, approvati

Come se ogni gesto dovesse giustificare la propria esistenza davanti a un tribunale invisibile: l’algoritmo, il mercato, gli altri, noi stessi.

“Ti piace dipingere?”
“Sì, ma non sono bravo.”

Quante volte lo diciamo. Come se il diritto di fare una cosa dipendesse dal livello di performance. Come se esistesse una dogana anche per la gioia.

L’hobby come forma di disobbedienza gentile

Forse, oggi, avere un vero hobby – uno spazio in cui non devi migliorare, monetizzare, esibire – è diventato un atto quasi sovversivo.

Leggere un romanzo senza sottolineare pensando al post da farci.
Fare una passeggiata senza tracciare i passi sull’app.
Suonare uno strumento senza mai pubblicare un video.
Scrivere una pagina di diario che resterà chiusa in un cassetto.

Non è pigrizia.
È scegliere che non tutto deve diventare mezzo.

Perché quando ogni azione deve produrre un risultato, qualcosa in noi si irrigidisce. La curiosità diventa ansia di performance. Il gioco si trasforma in compito. E il tempo libero, invece di alleggerire, comincia a pesare.

Un hobby, nel senso più antico del termine, è una zona in cui nessuno prende appunti.
Neanche tu.

La vita oltre il curriculum

Se oggi guardassimo le nostre giornate con la stessa lente con cui studiamo i “grandi”, ci accorgeremmo di un dettaglio: quello che ci salva, quasi mai, è ciò che finisce sul curriculum.

Non è la riunione.
Non è il KPI.
Non è la mail delle 23:47.

Ci salva l’ora passata a sistemare le piante sul balcone.
La partita a carte con un amico.
Il modellino costruito senza motivo.
Il cane portato al parco a lanciare lo stesso bastone cinquanta volte.

Sono i gesti che non entreranno mai nella sezione “esperienze professionali”, ma impediscono alla nostra identità di collassare tutta dentro una sola parola: lavoro.

Einstein resterà per noi il padre della relatività, non il violinista.
Woolf resterà una delle voci più luminose del Novecento, non la collezionista di pietre.
Ma forse è proprio quel violinista e quella collezionista di pietre che hanno dato ossigeno alla loro opera.

Come se il genio, per respirare, avesse bisogno di qualcosa che non fosse geniale.

Se tutto è mezzo, cosa resta come fine?

C’è una domanda, alla fine di questo percorso, che continua a tornare:

Se tutto diventa mezzo, cosa resta come fine?

Se leggiamo per far vedere che leggiamo.
Se viaggiamo per dimostrare che viaggiamo.
Se scriviamo per alimentare un algoritmo.
Se cuciniamo per la foto e non per il profumo in cucina.

Che fine fa quella parte di noi che ha bisogno di fare le cose “perché sì”, “perché mi va”, “perché mi fa bene”, senza ulteriori spiegazioni?

Forse la risposta è semplice e scomoda: abbiamo bisogno di tornare ad avere almeno una cosa nella vita che non serva a niente.

Un gesto.
Un rito.
Un piccolo passatempo che non diventerà mai un corso, una pagina, un prodotto, un servizio, un’iniziativa.

Qualcosa che, se domani qualcuno ti chiedesse: “A cosa ti serve?”, tu possa permetterti il lusso di rispondere:

«A niente.
È per me.»

Non salverà il mondo.
Ma potrebbe salvare, in silenzio, il modo in cui abiti il tuo.

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