Emoglobinuria parossistica notturna: gestire l’anemia residua per migliorare la qualità di vita dei pazienti

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Prof. Francesco Lanza (Ravenna): “Il traguardo è prevenire la dipendenza dalle trasfusioni, e oggi abbiamo opzioni terapeutiche mirate per raggiungerlo” 

Per chi convive con l’emoglobinuria parossistica notturna (EPN), gli avanzamenti terapeutici raggiunti negli ultimi anni non sono stati soltanto un passo avanti nei protocolli di trattamento: è stato fiato che tornava, anemia che regrediva, una quotidianità che recuperava margini di normalità. Grazie alle terapie capaci di frenare l’attivazione incontrollata del sistema del complemento, molte persone affette da questa rara malattia del sangue hanno visto ridursi gli episodi di emolisi, nonché i sintomi più debilitanti e le complicanze più temute della patologia, come il rischio trombotico.

Eppure, nonostante i grandi progressi compiuti, una parte consistente delle persone in trattamento con inibitori della porzione terminale del complemento continua a fare i conti con un’anemia residua. È un fenomeno eterogeneo, che può rimanere lieve oppure assumere forme più severe, condizionando fortemente il benessere giornaliero e traducendosi, nei casi più gravi, in una vera e propria dipendenza dalle trasfusioni. 

Le nuove terapie ci consentono un controllo molto più completo della malattia. Per questo, oggi non è più accettabile che un paziente con EPN rimanga a lungo trasfusione-dipendente”, afferma il Francesco Lanza, direttore dell’Unità Operativa di Ematologia dell’Ospedale Santa Maria delle Croci di Ravenna e professore presso l’Università di Bologna. “Convivere con la necessità periodica di recarsi in ospedale, affrontare ore di trattamento trasfusionale e riorganizzare lavoro, famiglia e progetti personali attorno a un bisogno clinico così rigido non è più sostenibile. È una condizione che pesa profondamente su chi vive con l’EPN, soprattutto oggi che è possibile un approccio terapeutico più mirato e consapevole”.

UNA RARA MALATTIA EMATOLOGICA

L’emoglobinuria parossistica notturna (EPN) è una condizione caratterizzata da anemia emolitica, trombosi e in alcuni casi insufficienza midollare. Nell’EPN, a causa di una mutazione nel gene PIGA, le cellule staminali ematopoietiche (progenitrici delle cellule del sangue) producono globuli rossi, globuli bianchi e piastrine ‘difettosi’. In particolare, i globuli rossi, indeboliti dall’assenza di alcune proteine di membrana, vengono bersagliati e distrutti dal sistema del complemento, il meccanismo di difesa innato del nostro organismo. È un processo rapido, che avviene all’interno dei vasi sanguigni (emolisi intravascolare) e può manifestarsi con stanchezza marcata, urine scure e un calo improvviso dell’emoglobina.

Il sistema del complemento, quindi, pur funzionando correttamente, diventa il principale responsabile della patologia e gioca un ruolo centrale nello sviluppo della sintomatologia. “Per questo è su di esso che occorre agire per poter ridurre gli eventi di emolisi”, spiega il prof. Lanza. “L’arrivo delle terapie modulatrici del complemento ha trasformato radicalmente la storia naturale dell’EPN. In particolare, in Italia, il trattamento di prima linea si avvale dell’utilizzo di due inibitori della porzione terminale del complemento, eculizumab e la sua versione a emivita più lunga, ravulizumab. Tuttavia, la malattia presenta aspetti complessi che non sempre si risolvono con il solo blocco terminale del complemento”.

L’IMPATTO DELL’ANEMIA RESIDUA SULLA QUALITÀ DI VITA DEI PAZIENTI

Inibire la parte finale della cascata del complemento, pur essendo generalmente efficace nel prevenire l’emolisi intravascolare, non impedisce che le proteine di questo sistema situate più a monte, come il fattore C3, continuino ad attivarsi. “Frammenti di questa proteina plasmatica possono ancora depositarsi sui globuli rossi”, chiarisce il prof. Lanza. “Gli eritrociti, così segnalati, vengono riconosciuti e rimossi dagli organi deputati alla filtrazione del sangue, come milza e fegato”. Questo processo, noto come emolisi extravascolare, coinvolge circa un terzo dei pazienti in trattamento con gli inibitori della porzione terminale del complemento e procede lentamente, spesso senza i segni eclatanti dell’emolisi intravascolare: gli indici di emolisi, come l’LDH, possono rimanere normali e il paziente può sentirsi relativamente stabile. “È una dinamica insidiosa - sottolinea il prof. Lanza - perché non dà segnali acuti: il paziente non ha delle vere e proprie crisi emolitiche, non ha urine scure, ma intanto continua a perdere globuli rossi e a manifestare anemia”.

Inoltre, le persone affette da EPN, nonostante la terapia con gli inibitori del complemento, possono andare incontro a occasionali episodi di emolisi intravascolare. Queste crisi improvvise, denominate “breakthrough hemolysis” (BH), sono principalmente imputabili a due fattori: inadeguato livello plasmatico del farmaco dovuto a un dosaggio insufficiente (BH farmacocinetica), oppure presenza concomitante di condizioni che attivano il complemento (BH farmacodinamica), come infezioni, traumi, interventi chirurgici, gravidanze o sbalzi ormonali. 

Che si tratti di una breakthrough hemolysis o di un’emolisi extravascolare persistente, quando il paziente raggiunge i 10 grammi di emoglobina per decilitro di sangue è il momento di intervenire”, afferma il prof. Lanza. L’anemia che accompagna l’EPN, infatti, non va sottovalutata e spesso è più debilitante rispetto a quella di altre condizioni: la stanchezza è più profonda, l’autonomia si riduce e ogni attività quotidiana diventa estremamente impegnativa. “Nell’anemia in fase acuta la trasfusione rimane il modo più rapido per ristabilire l’equilibrio - prosegue l’ematologo - ma il passo successivo è capire come evitare che il problema si ripresenti”.

NUOVE ‘ARMI’ PER CONTRASTARE L’ANEMIA RESIDUA

Le nuove terapie per l’EPN in grado di agire più a monte nella cascata del complemento - come pegcetacoplan, iptacopan o danicopan - offrono la possibilità di tenere sotto controllo l’anemia residua, purché la scelta del trattamento sia ponderata, come sottolinea il prof. Lanza: “Questi farmaci non sono da usare a tentativi, solo perché li abbiamo a disposizione. La decisione terapeutica deve essere ragionata, condivisa e costruita sul singolo paziente”.

Un aspetto critico, a volte trascurato, è la reale capacità del paziente di aderire al trattamento”, puntualizza il professore. “La scelta della terapia, infatti, dovrebbe prendere in esame tutte le variabili, anche quelle più pratiche: la distanza dal centro di riferimento, la possibilità di gestire correttamente l’auto-somministrazione domiciliare e il grado di sostenibilità della terapia stessa nell’ambito della routine quotidiana individuale. Alcune soluzioni, come il microinfusore sottocutaneo richiesto da pegcetacoplan, possono essere più adatte a pazienti giovani e molto autonomi, in grado di gestire il dispositivo con precisione. Se invece prendiamo ad esempio una terapia orale come iptacopan, che sulla carta è più semplice da gestire, occorre comunque considerare il rischio che una persona si dimentichi di assumerla o, nei casi più impegnativi, decida deliberatamente di non averne bisogno. Sono tutte dinamiche che emergono nella pratica clinica e che influenzano in modo significativo l’efficacia complessiva del trattamento, e quindi anche la scelta del farmaco più adatto”. 

“Per questo, ogni decisione terapeutica deve essere cucita su misura e condivisa con il paziente, affinché il trattamento sia davvero sostenibile nella quotidianità”, conclude l’ematologo. “Solo così possiamo garantire un controllo più stabile della malattia e migliorare davvero la qualità di vita delle persone con EPN”.

Recapiti
info@osservatoriomalattierare.it (Giulia Virtù)