Scritto da Lidija Pisker, Barattoli ha vinto il Premio Speciale Slow Food – Terra Madre della XX edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, un progetto permanente della Regione Piemonte e del Salone internazionale del Libro di Torino, ideato nel 2005 da Daniela Finocchi e diretto alle donne migranti, alle loro figlie e a tutte coloro che si riconoscono in appartenenze multiple.
Ecco la motivazione del premio:
«Il cibo unisce e divide al tempo stesso. Il rosso ajvar è emblema dell’identità balcanica, e viaggia nelle valigie di chi vive altrove. Ma la sua origine è contesa – un po’ come accade per tante ricette regionali italiane – tra Albania, Serbia e diversi altri paesi. Il racconto presenta un ottimo incipit e lo contraddistinguono parole ben dosate, proprio come la speziatura e la piccantezza dell’ajvar. A tratti, in modo anche ironico, l’autrice fa comprendere come un semplice barattolo di salsa possa attenuare la nostalgia di casa e rafforzare un legame che non può essere spezzato. Nonostante la distanza».
Barattoli
Una fila di magliette una sopra l’altra nella colonna di sinistra, biancheria intima in quella di destra. In mezzo, maglioni arrotolati come cannoli siciliani da cui spuntano barattoli di vetro da mezzo chilo.
«I maglioni sono pesanti, così i barattoli non si rompono in aereo» ripete mia madre ogni volta che preparo la valigia per tornare in Italia. Prima di chiuderla facciamo entrambe mille controlli, assicurandoci che i maglioni siano ben arrotolati intorno ai barattoli.
La valigia – distesa sul tavolo nello studio di mamma come se fosse una teglia di lasagne di vestiti di vari colori – sembra annoiata, oramai abituata alla solita routine. Clunkkk, ziiiip, “buon viaggio e fammi sapere quando arrivi”, slammm.
I miei viaggi dalla Bosnia, dove ho vissuto quasi tutta la mia vita, all’Italia, dove vivo da qualche anno, sono sempre “leggermente” pesanti, come i barattoli che porto. Non perché io tema di volare o che qualcosa possa andare storto in aereo. La mia ansia da viaggio consiste in una sola sensazione: la paura di trovare un disastro quando aprirò la valigia una volta giunta a Roma.
Per fortuna arrivano sempre integri, dal tavolo nello studio di mia madre in via Ćire Truhelke 8 fino alla mia cucina in via Caulonia 13. Quando li srotolo con cura dai maglioni sento il mio cuore riempirsi di gioia, come un barattolo di ajvar appena aperto. Scrivo a mamma: «Sono arrivata» e lei risponde: «Super, e con l’ajvar tutto bene?»
L’ajvar è una famosa salsa balcanica di colore rosso-arancio preparata con peperoni rossi, melanzane e aglio. È una ricetta semplice che richiede però pazienza e maestria. Il suo sapore è dolce ma anche acidulo; la sua consistenza è cremosa ma anche granulosa, grazie ai pezzettini di verdure che si sentono sul palato. Un condimento fatto di opposti che si incontrano, riflettendo la complessità della terra balcanica, dove è nato.
Ma per i popoli balcanici l’ajvar è molto di più.
È un tesoro prezioso, sia fatto a casa che industrialmente, che appare magicamente sulle nostre tavole, soprattutto durante le feste e le riunioni familiari. Quello fatto a mano viene messo in barattoli che una volta custodivano marmellata di albicocche, sottaceti o Nutella. Perché quando si fa l’ajvar siamo i maestri del riciclo! Di solito, lo prepariamo in quantità sufficienti a sfamare tutta l’Europa. Perché quando si fa l’ajvar non si scherza!
E così, ogni anno, ex marmellate, ex sottaceti ed ex Nutelle popolano le nostre tavole, mentre gli ospiti si trasformano in detective culinari, intenti a scoprire il segreto nascosto. «Il tuo ajvar ha qualcosa di speciale… hai forse aggiunto un pizzico di zucchero?»
È un condimento che nasce per essere condiviso, un legame tra chi lo prepara e chi lo gusta, un sapore che custodisce tradizioni e ricordi.
Sebbene l’ajvar sia un collante sociale, un filo che ci unisce, ha anche il potere di dividerci. Ogni paese balcanico è convinto di essere il genio dietro l’invenzione di questa amata salsa, dando vita ad una competizione senza fine su chi possieda la ricetta “originale” o, ovviamente, la versione migliore.
Mi ricordo che Dua Lipa, la famosa popstar britannica di origini kosovare, in un’intervista ha definito l’ajvar un piatto albanese. Questa uscita ha scatenato una vera e propria tempesta: i serbi, infuriati, hanno ribattuto che l’ajvar è chiaramente serbo, mentre i macedoni del nord, indignati, hanno messo in chiaro che la salsa appartiene a loro.
Alla fine, però, quando lo metti in tavola, non importa nient’altro che quel barattolo, il cucchiaino che ci tuffi dentro e il pezzo di pane su cui lo spalmi.
Proprio come me migliaia di emigranti dai Balcani serbano l’ajvar, nascosto nelle pieghe delle loro valigie e dei loro cuori, nei loro bagagli in viaggio verso nuove case. Clunkkk, ziiiip, “buon viaggio e fammi sapere quando arrivi”, slammm. Un esercito di valigie-lasagna attraversa ogni giorno i controlli di sicurezza negli aeroporti di Sarajevo, Belgrado, Zagabria, Podgorica e Skopje, cariche di barattoli-ricordi che ci accompagnano ovunque andiamo, rendendo ogni nuova destinazione un po’ più familiare.
E così, quando i miei amici balcanici stanno per venire a trovarmi, e mi chiedono: «Hai bisogno di qualcosa da qui?», la mia risposta è sempre uguale: «Portami un barattolo di ajvar se puoi.»
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Durante il covid non potevo viaggiare. Più di due anni senza mettere piede in Bosnia e nemmeno l’ombra di una visita dalla penisola balcanica. Mi mancavano mia mamma e l’ajvar.
Sì, mi trovo bene in Italia: ho imparato la lingua e ho capito che gli spaghetti non vanno mai spezzati. E poi c’è il caffè: invece di sorseggiarlo per ore come facevo in Bosnia, lo butto giù in un colpo solo, come se fosse tequila, in un atto di pura italianità.
Ma non sono mai riuscita a fare pace con la difficoltà di trovare l’ajvar in Italia. Lo trovavo solo in qualche negozio turco o arabo e, ogni volta che riuscivo a mettere le mani su un barattolo, mandavo le foto a mia mamma: «Guarda che cosa ho trovato!»
Grazie agli emigrati balcanici, molti dei quali vivono in Scandinavia, l’ajvar ha conquistato i supermercati, le cucine e persino il lessico del nord Europa. La parola “ajvar” è stata inserita nei dizionari svedesi e danesi, dove viene definita come “una crema di peperoni di origine balcanica”. In Italia, invece, l’ajvar è ancora uno sconosciuto.
È stata Jelena, un’amica serba, a farmi scoprire un piccolo supermercato ucraino a Roma che vende prodotti dai paesi dell’est Europa. Lì, in mezzo a borscht¹ e zakuska² c’era lui, il mio amico Ajvar, in tante varianti diverse.
Ora, finalmente, ne ho abbastanza per far conoscere il mio vecchio amore ai nuovi amici che si sono trasferiti a Roma da diverse parti del mondo. Vederli gustare questa salsa, con gli occhi spalancati e i cucchiai pronti a raccoglierne ancora, mi rende felice.
«Come si chiama?» mi chiedono con le labbra macchiate di rosso-arancio, pieni di stupore. «Aj-var» rispondo. Inevitabilmente dimenticano il nome, che per loro è distante e dimenticabile, e mi chiedono di nuovo: “«La salsa… come avevi detto che si chiama?». Con la gioia di una maestra che adora la sua materia, alzo la voce come se stessi spiegando l’ABC: «AJ-VAR!»
Mi piace organizzare aperitivi a casa e il negozio ucraino è diventato il mio rifugio. Ogni volta che faccio la spesa è come tornare a casa, solo che non mi servono il passaporto, i maglioni e le valigie, ma soltanto un carrello.
Sulla vetrina del negozio sono elencati i nomi dei paesi di origine dei prodotti, e tra questi c’è anche “Jugoslavia”. Sorrido ogni volta che leggo quel nome. Davanti ai barattoli di ajvar di diversi marchi balcanici, mi sembra che la Jugoslavia non sia solo un ricordo lontano, ma qualcosa di ancora presente e tangibile. Come se il mio paese natale facesse una comparsa inaspettata per farmi sentire che Roma è il posto in cui dovrei essere. Come se volesse dirmi: «Adesso non ti manca più nulla, tranne tua mamma».
¹ minestra ucraina a base di barbabietola.
² antipasto tradizionale romeno.
L’autrice
Lidija Pisker, nata in Bosnia Erzegovina, è giornalista e attivista culturale. Da sempre innamorata del viaggio, esplora il mondo confrontandosi con molteplici esperienze e conoscenze, raccontando storie di culture, cibo e identità̀. È proprio uno di questi viaggi a farle incontrare il suo compagno, con cui oggi condivide la vita. Attiva nell’affermare i diritti delle persone anziane, si impegna per dedicare loro la giusta attenzione in una società̀ che spesso le mette in ombra. Ora sta invecchiando con il compagno, il loro cane e il loro gatto a Roma.