La vicenda di Tiziana Sfriso, che alleva il Nero di Parma allo stato semibrado a pochi chilometri dai salumifici. «Pressioni dalle istituzioni, sono costretta a chiudere gli animali in stalla. È umiliante»
Nei boschi di Fornovo di Taro, Appennino parmense, dove da otto anni alleva allo stato semibrado suini di razza Nero di Parma, probabilmente con i suoi animali non potrà mai più tornare. È arrivata la peste suina africana, e qua fa paura più che altrove. Perché Felino, Langhirano, Sala Baganza – terre di salumifici, di grandi industrie della carne – sono a due passi. Lei, Tiziana Sfriso, aveva scelto di allevare all’aperto, di far crescere i suoi animali nei prati e nei boschi, di far loro vivere una vita quanto più naturale possibile, lasciando le scrofe libere di partorire nei nidi che si costruiscono tra le piante e di svezzare i suinetti nei tempi necessari al loro sviluppo. Poi, un mese fa, una telefonata: o macelli subito tutti i tuoi capi, oppure li rinchiudi in un capannone.
Tre scrofe e un verro
«Io non ho una tradizione agricola di famiglia» racconta Tiziana. Con una laurea in informazione scientifica sul farmaco in mano, ha scelto di fare l’allevatrice: «Perché da consumatrice di carne mi sembrava giusto trovare un metodo alternativo di allevare gli animali, un metodo che ponesse attenzione al benessere loro, dell’ambiente e degli esseri umani», qualcosa che fosse agli antipodi dagli allevamenti industriali, dalla logica dell’ingrasso in stalla. Dopo essersi formata, seguendo corsi sull’allevamento biologico, sui princìpi della biodinamica e dei sistemi agroecologici, e dopo aver valutato il terreno a disposizione, la scelta è ricaduta sui suini. Il Nero di Parma, «perché volevo rispettare la biodiversità locale in fatto di razze». A maggio del 2017 inizia: tre scrofe e un verro. L’idea chiara, irrinunciabile, di allevare all’aperto, di adottare il ‘ciclo chiuso’, cioè di far riprodurre i suini, di seguirli lungo tutta la vita. Nell’estate di quell’anno, le prime nascite: «Ventuno suinetti, me li ricordo benissimo».
Fino all’inizio del 2022, quando in Italia viene riscontrato il primo caso di peste suina africana in un cinghiale, nella zona di Ovada (Alessandria), le cose vanno bene. Ma da quel giorno, la situazione prende una piega diversa, peggiorando mese dopo mese con l’avvicinarsi del virus all’Emilia. «Abbiamo iniziato a ricevere pressioni non da poco: allevando i nostri animali all’aperto, e non in porcilaie e capannoni industriali, siamo visti dalla politica e dalle autorità sanitarie come i possibili responsabili del contagio nel suino domestico. Veniamo considerati l’anello debole, anche se lo storico delle positività dimostra che il virus entra dove vuole, anche e soprattutto nei grandi allevamenti al chiuso dove vengono utilizzati protocolli di biosicurezza degni di una sala operatoria. Ma siccome veniamo considerati fragili, siamo anche ritenuti i più sacrificabili».
E così si arriva a quella telefonata del 9 maggio, il giorno stesso del ritrovamento di un cinghiale morto, positivo al virus, a tre chilometri dalla sua azienda. Eppure, sottolinea Tiziana, «in questi anni abbiamo sempre ottemperato alle normative, investito in biosicurezza, siamo sempre stati controllati». E, ovviamente, non vi è mai stato alcun caso di positività nel suo allevamento. A proteggere l’area in cui pascolano i suoi suini ci sono reti elettrosaldate, barriere elettrificate, tutto quello che deve esserci. «Ho ricevuto telefonate in cui mi è stato detto che c’è bisogno di salvare il comparto, che se la malattia arriva nel domestico è colpa nostra, che se crolla l’export i danni sono importanti. Ma se noi facciamo le cose per bene, la responsabilità di tutto non può essere sulle spalle di noi piccoli allevatori».
Macellare tutto, ci racconta Tiziana, è impensabile: per lei e per il marito Gabriele significherebbe perdere il lavoro – «perché per noi è un lavoro, anche se alcuni decisori politici guardano a noi allevatori semibradi come a hobbisti» – e probabilmente significherebbe anche aumentare il rischio di perdere una razza, il Nero di Parma, da decenni a rischio di estinzione. E poi, tra i circa settanta capi che oggi ha in azienda, ci sono una decina di scrofe gravide che partoriranno a luglio. Non le resta, allora, che andarsene.
“Una soluzione umiliante”
«Abbiamo dovuto cercare un posto al chiuso, una porcilaia dove spostare i nostri suini abituati a vivere all’aperto – spiega –. L’abbiamo trovata, ma per noi non è una soluzione: sia a livello di costi (parliamo di migliaia di euro all’anno di affitto, ndr) sia a livello di rischio – chi lo dice che i nostri maiali siano più protetti lì che nel nostro allevamento? –. Soprattutto, sarà disastroso a livello di benessere animale: i suini non sanno neanche bere l’acqua dai succhiotti per l’abbeveraggio, perché da sempre nascono all’aperto e vivono per due o tre anni nel bosco. Il veterinario ci ha detto che, spostandole e chiudendole in stalla, le scrofe potrebbero perdere l’istinto materno. Lo stress sarebbe notevole. Portare gli animali al chiuso è una sconfitta, è umiliante, è contro tutto quello che io e mio marito pensiamo».
I tentativi di dialogo con i funzionari pubblici, sottolinea Tiziana, sono molto difficili: «Abbiamo subito fatto delle proposte di buon senso, ma sono state bocciate. In questi giorni, come ultimo tentativo, manderemo una proposta ufficiale al Ministero e ci auguriamo che vengano prese seriamente in considerazione. È chiaro che per la sanità pubblica è più importante che noi ci spostiamo da quell’area. Capisco che vogliano salvaguardare il comparto industriale, visto che ci lavorano tante persone, ma anche noi viviamo di questo: non possiamo improvvisamente trovarci senza diritti, costretti a sacrificare tutto quello che abbiamo costruito per salvare il comparto industriale, i salumifici, l’export. Il comparto non lo dobbiamo salvare noi, ma chi da anni dovrebbe produrre risultati che purtroppo non si vedono perché la peste suina continua a diffondersi».
Inviti pressanti
Per carità: le norme (in particolare l’articolo 8 dell’ordinanza 5/2024 del Commissario straordinario alla peste suina africana) dà alle autorità competenti locali il diritto, “se del caso, di programmare la macellazione tempestiva dei suini presenti negli stabilimenti di tipo commerciale, con particolare riferimento a quelli di tipologia semibrado”.
Ma forse servirebbe fare di più e meglio per proteggere le piccole realtà rurali, anziché macellare tempestivamente o fare pressioni sugli allevatori, come quelle che in questi mesi Slow Food Italia ha ricevuto anche da colleghi di Tiziana in altre aree d’Italia, ad esempio dalla Lunigiana e dalla Lombardia. Proprio nella parte occidentale della Lombardia si è voluta creare una zona cuscinetto, “libera” da allevamenti estensivi, tra le zone colpite dalla peste suina nel novarese e le province di Cremona, Mantova, Brescia, dove si alleva la maggior parte dei suini italiani. Ai primi di marzo, l’ultimo allevatore in estensivo della provincia di Milano, “Garall”, a Robecco sul Naviglio, ha dovuto macellare tutti i suoi suini (tutti sani) frutto di incroci tra Nero di Parma e Large White che aveva selezionato nel tempo, nonostante la sua azienda fosse in regola con la normativa e nonostante gli animali fossero già stati ricoverati al chiuso per maggiore sicurezza. Anche qui in seguito a pressioni e senza una richiesta ufficiale scritta. L’azienda era in zona 3 di restrizione, ma aveva ottemperato a tutte le richieste di biosicurezza necessarie in quel contesto, ma il rispetto dei criteri di biosicurezza rafforzata sembra non essere più sufficiente per allevare con serenità.
I salumi prodotti con queste carni costituivano buona parte del reddito di Garall. E nessuno ha indennizzato l’allevatore per il danno effettivo legato alla perdita di una genetica selezionata nel tempo, nel mancato reddito futuro, nei danni di immagine legati al depopolamento (anche se i suini erano sani, il dovere di depopolare è sempre visto con sospetto).
Servirebbe fare di più e meglio per proteggere le piccole realtà rurali, dicevamo, anche perché chi viene costretto a chiudere gli animali in stalla difficilmente potrà tornare ad allevare all’aperto in tempi brevi: occorrono anni perché un’area soggetta a restrizioni per la peste suina ritorni alla normalità. In Sardegna, ad esempio, l’eradicazione ha richiesto una quarantina d’anni.
«I decisori sono abituati a misurare e tenere in considerazione solo il valore economico delle cose, e non quello sociale e ambientale – conclude Tiziana –. Tutti si lamentano che le aree marginali sono soggette ad abbandono e spopolamento, tutti conoscono i problemi ambientali degli allevamenti da carne. Il valore di allevamenti come il mio e di altri che hanno scelto il semibrado nelle aree interne d’Italia non lo si può calcolare soltanto a livello economico: lo capiranno, forse, tra qualche anno. Quando non ci saremo più, quando le razze in via di estinzione saranno definitivamente perdute, quando i consumatori non potranno più scegliere che cosa mangiare, e non ci saranno alternative all’industria della carne».
Nel frattempo, un report EFSA sulla situazione della peste suina nel 2024 segnala che i casi nei suini domestici diminuiscono in Europa dell’83% rispetto al 2023, tranne in due Paesi in cui invece sono in crescita – Polonia e Italia – e dove i contagi sono avvenuti perlopiù in aziende con ben più di 100 capi.