A Gaza per 90 mila bimbi il rischio è la morte, ora la neutralità non è più ammissibile.
A Gaza la fame ormai non è più un effetto collaterale della guerra. È diventata un’arma tanto antica quanto disumana di chi ha scelto di trasformare il cibo in uno strumento per spezzare, svuotare e cancellare un popolo.
E tutto ciò ormai, ha poco o nulla a che vedere con il diritto di Israele ad esistere e a difendersi. Da oltre un anno e mezzo la Striscia è sottoposta a un assedio pressoché totale. Mancano acqua e cibo, ma anche carburante e elettricità, anch’essi funzionali al soddisfacimento del bisogno primario di alimentarsi, rendendo edibili cibi che senza la cottura non lo sarebbero. A chi sta dentro Gaza non resta altro che resistere, fino a quando le energie lo consentiranno, e il cibo è diventato una linea di confine sottilissima, tra la vita e la morte. Dal 2 marzo scorso, data in cui Israele ha avviato il blocco totale degli aiuti internazionali destinati ai civili palestinesi – sostenendo che questi venissero presi e poi rivenduti da Hamas – l’assedio ha assunto toni ancora più drammatici. Solo dopo dieci settimane, settanta lunghissimi giorni, la distribuzione di viveri è parzialmente ripresa.
Distribuzione senza criteri, vince solo la legge del più forte
Dico parzialmente perché il cibo fornito non è sufficiente per le due milioni di persone che vivono all’interno della Striscia di Gaza, e anche perché la distribuzione è quasi totalmente nelle mani della Gaza Humanitarian Foundation (GHF). Si tratta di un’organizzazione umanitaria americana creata a febbraio 2025 da finanziatori sconosciuti che si propone di garantire la distribuzione di cibo nella Striscia. Siccome però i finanziatori sono ignoti, mentre è nota la collaborazione con Israele sul fronte della distribuzione (venendo quindi meno il principio di imparzialità e indipendenza degli aiuti) c’è il timore, da parte di numerose organizzazioni internazionali, che un obiettivo celato della Fondazione sia quello di affamare i palestinesi.
Prima del blocco degli aiuti internazionali la distribuzione di alimenti avveniva attraverso una rete capillare di 400 punti sparsi all’interno di tutto il territorio di Gaza e gestiti da circa 200 organizzazioni internazionali. Ora invece la GHF opera con solo quattro punti, di cui tre nel sud della Striscia e uno nella parte centrale. Questo è un problema perché comporta che le centinaia di migliaia di palestinesi che vivono nella parte Nord debbano per forza spostarsi per poter mangiare, e anche perché è impossibile pensare di fornire cibo a due milioni di persone unicamente in quattro punti. Questo sistema infatti genera scene intollerabili per una coscienza umana definibile come tale: persone affamate che si accalcano, che muoiono schiacciate nella ressa nel tentativo di aggiudicarsi qualche scorta alimentare, oppure uccise dai soldati israeliani che tentano di tenere a bada e dissipare la folla (si stima che le vittime siano già oltre 1000). Senza un criterio di distribuzione, senza un ordine, senza pietà l’unica legge vigente è quella del più forte. E chi è più debole, semplicemente muore. Si tratta di donne stremate, anziani che muoiono sotto il sole, bambini che si riducono a mangiare terra e sassi, che piangono e che crollano addormentati stremati dalla fame.
Una situazione intollerabile
E mentre tutto questo accade, Israele proclama di star distribuendo regolarmente il cibo, mentre i numeri lo smentiscono. Gli operatori della GHF hanno di recente annunciato di aver distribuito 85 milioni di pasti da quando hanno iniziato ad operare circa due mesi fa. Se però consideriamo che ognuna delle 2 milioni di persone che vive a Gaza dovrebbe consumare in media tre pasti al giorno, e moltiplichiamo questo per il numero di giorni di operatività, allora è evidente che i numeri di pasti che si sarebbero dovuti distribuire sono circa quattro volte superiori a quelli effettivi.
Aggiungo un altro elemento: soffermarsi sulla quantità di cibo non è sufficiente, bisogna guardare anche alla tipologia. Si tratta infatti perlopiù di alimenti che necessitano di una preparazione (patate, pasta, farina, riso, fagioli) e che in un territorio in cui mancano quasi totalmente elettricità, gas e acqua potabile, risultano inutilizzabili. Mi viene da dire in maniera tragicamente proverbiale che: anche chi ha il pane, non ha poi i denti per mangiarlo.
Essere neutrali non è più ammissibile
Secondo l’ultimo rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification (indicatore internazionale per calcolare il livello di sicurezza alimentare), tutti gli attuali abitanti di Gaza vivono in condizioni di insicurezza alimentare acuta. Mentre quasi mezzo milione, di cui novantamila bambini, si trovano nella fase più acuta dell’indicatore, definita “fame catastrofica”. Si tratta di una pressoché certa condanna a morte, o comunque a una vita con traumi fisici e psicologici cronici.
La soluzione per porre una tregua quantomeno temporanea a questo scempio c’è, ed è immediata: 953 camion del Programma Alimentare Mondiale sono fermi oltre il confine della Striscia. Contengono 116.000 tonnellate di cibo, sufficienti a sfamare due milioni di persone per due mesi. Eppure restano fermi a conferma del fatto che in questo caso la fame non è un effetto della guerra, ma uno strumento.
Perché, come scriveva sulle colonne di questo giornale il psico-oncologo Damiano Rizzi, fondatore di Soleterre: “Quando un bambino muore per mancanza di cure o di cibo, non è una fatalità. È un crimine. È infanticidio”.
Non è più possibile nascondersi e fingere che esistano due verità. Non si può equiparare chi sulla Striscia sta affamando alla morte un popolo intero e nel frattempo parla del progetto di lusso denominato “Riviera di Gaza”, con chi invece lotta per sopravvivere. Siamo giunti a un punto in cui essere neutrali non è più ammissibile.
Carlo Petrini
da La Stampa, 27 luglio 2025