“In Europa l’estate più calda degli ultimi cento anni”. “Clima, gli scienziati avvertono: solo pochi anni per evitare il disastro”. “La Terra ha la febbre, prepariamoci all’apocalisse”. La narrazione della crisi climatica sui media si nutre molto spesso di sensazionalismo, presentando il problema e i singoli eventi con titoli e toni catastrofici. Due sono i fattori che spingono in questa direzione, ha spiegato il professor Stefano Caserini in una lezione aperta presso l’Università di Parma: da un lato il bisogno di notizie forti, che catturino l’attenzione di un pubblico sempre più distratto, dall’altro la carenza di competenze che permettano una corretta lettura dei dati climatici, per loro natura multidimensionali e altamente variabili.
Per interpretare in modo attendibile la trasformazione del clima sul nostro pianeta bisogna prendere in esame intervalli temporali molto lunghi e correlare tra loro un buon numero di parametri, operazione che richiede conoscenza ed esperienza. Se si considera uno specifico episodio meteorologico o si guarda solo il breve periodo, ad esempio confrontando la variazione delle temperature medie in una certa zona da un anno all’altro, è facile andare fuori strada e virare verso un racconto iper-semplificato e sensazionalista.
Ma la tendenza all’iperbole e al catastrofismo è solo una parte della storia. All’estremo opposto troviamo narrazioni di stampo negazionista, che cercano di rimuovere o minimizzare la crisi climatica. Le evidenze scientifiche e l’esperienza collettiva rendono ormai difficile negare in toto il problema, ma è abbastanza diffuso quello che Stanley Cohen nel suo saggio ‘Stati di negazione’ definisce diniego interpretativo o implicito: si attribuisce al fenomeno solo una parte del suo significato, escludendo tutto quello che implica responsabilità e, di conseguenza, dovrebbe muovere all’azione.
È una sorta di sub-negazionismo, o negazionismo di secondo livello, spesso agito da governi, autorità o portatori d’interesse (pensiamo al settore dei combustibili fossili) in modo pubblico ed esplicito, con l’obiettivo di orientare a proprio favore il racconto della crisi climatica. Potrebbe tuttavia essere anche un meccanismo semi-inconsapevole con cui individui e comunità provano a difendersi di fronte a un problema che mette in crisi lo status quo e per cui non esistono al momento soluzioni facili, né di sicuro successo.
Come suggerito dal professor Marco Deriu, l’intensità della negazione della crisi climatica è tanto più forte quanto più l’informazione genera angoscia e diventa insopportabile, facendo scattare un blocco dell’attenzione o dinamiche di autoinganno. Per scardinare questo tipo di negazionismo bisogna lavorare sull’ansia personale e collettiva, e non bastano i dati pur accuratissimi che la scienza può offrire. Il negazionista tende infatti a rifiutare o ignorare qualsiasi narrazione che contraddica il suo frame prevalente.
Quale linguaggio è allora meglio usare? Quali ingredienti mettere nel piatto per un’efficace comunicazione della crisi climatica? Nel suo recente workshop all’Università IULM di Milano, il climatologo Davide Faranda ne ha indicati tre: la scienza, con i risultati degli studi disponibili, l’esperienza, raccontando situazioni in cui le persone possano riconoscersi, e le soluzioni, per incoraggiare i piccoli ma importanti cambiamenti che possono cambiare la rotta.
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