Esattamente trent’anni fa, il giorno 11 luglio 1995, a poco più di un’ora di volo da Roma, ebbe luogo il peggior crimine commesso in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: il genocidio di Srebrenica. In appena tre giorni, in questa piccola cittadina della Bosnia orientale, 8.372 uomini e ragazzi bosniaci musulmani furono brutalmente uccisi dalle forze serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic e sepolti in fosse comuni, nonostante la zona fosse stata dichiarata “area di sicurezza” e dunque teoricamente protetta dai Caschi blu delle Nazioni Unite.
Srebrenica si trova in Bosnia e Erzegovina, paese coinvolto nella guerra (1992-1995) che seguì il crollo della ex Jugoslavia. La popolazione di quella cittadina, anche prima del conflitto, era prevalentemente bosniaco-musulmana e durante i primi anni della guerra lo divenne ancora di più perché a Srebrenica si rifugiavano spesso i civili della stessa etnia, in fuga dai villaggi di tutta quell’area. Quegli sfollati scappavano infatti dalla brutale campagna di “pulizia etnica” delle forze serbo-bosniache, che cercavano di occupare militarmente tutta la zona e poi appunto di “ripulirla” della popolazione non serba.
Srebrenica fu proclamata “safe area” dalle Nazioni Unite nell’aprile 1993, con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, proprio perché c’era grande apprensione per la sicurezza degli abitanti della città e delle migliaia di sfollati che vi erano arrivati. Essere “safe area”, in teoria, significava diventare città libera da attacchi militari e zona protetta dalle Nazioni Unite. Tuttavia, nella pratica, si scoprì che poi l’ONU non aveva le risorse, né un mandato militare chiaro per difendere attivamente queste aree, e che i Caschi blu dispiegati avevano ricevuto regole d’ingaggio molto restrittive.
Srebrenica fu zona protetta per poco più di due anni ma poi, quando nel luglio 1995 le truppe di Mladic provarono a conquistarla forzando la “safe area”, le forze dell’ONU presenti (in particolare il contingente dei Caschi blu olandesi) non intervennero per fermare le deportazioni e le uccisioni. Così, davanti agli occhi inermi delle Nazioni Unite, le donne furono separate dagli uomini: le prime vennero portate via con autobus in altre località e furono soggette anche a violenze; i secondi, soprattutto gli adulti e i ragazzi dai 12 anni in su, vennero sistematicamente uccisi e sepolti in fosse comuni.
Nel 2004, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia ha ufficialmente riconosciuto quanto avvenne Srebrenica come un “genocidio”, e negli anni successivi ha condannato come responsabili gli alti vertici sia politici sia militari dei serbo-bosniaci, tra cui Radovan Karadzic e il generale Ratko Mladic. E’ importante ricordare che con “genocidio” si intende un atto ancor più grave dei cosiddetti “crimini di guerra”, perché si tratta di un’azione deliberata e pianificata, commessa con l’intento di annientare un intero gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Dopo l’Olocausto, l’unico genocidio finora riconosciuto in Europa è stato proprio quello di Srebrenica.
Trent’anni dopo, in tutti i Balcani, il ricordo di quella tragedia è ancora vivo e solleva domande cruciali sulle responsabilità internazionali, sulla giustizia e sulle possibilità di riconciliazione. Oggi, infatti, Srebrenica rimane una città traumatizzata e divisa. Anche se molti dei colpevoli sono stati processati e condannati nei tribunali locali o al Tribunale dell’Aja, nella società locale le ferite restano profonde e il senso di ingiustizia è ancora enorme. Centinaia di corpi delle persone uccise durante il genocidio non sono ancora stati trovati e non si è ancora potuto dare loro degna sepoltura. Il progetto di “pulizia etnica” della zona sembra avere avuto successo, perché ad oggi non sono più i bosniaci-musulmani ad essere la popolazione principale a Srebrenica e dintorni, bensì proprio i serbo-bosniaci. E in ampie fasce di questa “nuova” popolazione della zona, il genocidio viene ancora negato o minimizzato, anche da politici e media importanti, nonostante tutti i verdetti del Tribunale Internazionale. Tutto questo mantiene il trauma ancora molto vivo, e impedisce reali percorsi di riconciliazione tra le parti.
Riconoscere da tutte le parti ciò che è accaduto sarebbe il primo passo per pensare di ricostruire un minimo di futuro più sereno e meno traumatico: “riconciliazione” significa infatti anche costruire spazi di memoria condivisa e perseguire una giustizia completa. In questi 30 anni, molti hanno lavorato in questa direzione, tra cui anche la Caritas: il supporto alle associazioni di madri e familiari delle vittime, le iniziative di dialogo tra giovani, i programmi educativi, le commemorazioni. Si è dimostrato che la strada della riconciliazione, pur lunga e accidentata, è possibile. Purtroppo però la politica e i media mainstream della zona preferiscono promuovere ancora oggi la retorica dell’odio, la divisione, la negazione della memoria. Così, dopo 30 anni, anche il terzo settore è costretto ancora a remare “controcorrente”.
Il genocidio di Srebrenica è anche la storia di un fallimento collettivo della comunità internazionale: un fallimento non solo operativo, ma anche morale e politico. L’ONU, che aveva il compito di proteggere quelle “zone sicure”, si rivelò impotente. I Caschi blu non ricevettero rinforzi, né l’autorizzazione a intervenire militarmente, e lasciarono fare. Le potenze occidentali, divise e riluttanti a impegnarsi in un conflitto complesso, sottovalutarono quello che stava succedendo, e tardarono a reagire. Dopo Srebrenica, le Nazioni Unite rividero le modalità di impiego dei propri contingenti: da allora è nato il concetto di “Responsabilità di Proteggere” (Responsibility to Protect), secondo cui la comunità internazionale ha il dovere di intervenire anche militarmente per prevenire genocidi, crimini di guerra, pulizie etniche e crimini contro l’umanità.
Purtroppo l’efficacia di questo principio è molto discutibile, come dimostrano i casi più recenti. A trent’anni da Srebrenica, il mondo è infatti ancora segnato da conflitti nei quali la popolazione civile paga il prezzo più alto, e dove crimini di guerra sono ancora in corso senza reazione da parte delle potenze internazionali che potrebbero fare qualcosa. Il pensiero più immediato va ovviamente a quanto sta succedendo a Gaza, ma non possiamo dimenticare gli atroci crimini che avvengono anche in altre parti del mondo, come in Sudan, in Congo, in Ucraina. In tutti questi scenari la comunità internazionale, ancora una volta divisa o inerme o paralizzata dai veti nel Consiglio di Sicurezza, lascia che si perpetuino crimini di guerra, deportazioni, distruzioni di massa, violenze di ogni genere sui civili.
Ricordare Srebrenica non significa dunque solo onorare le vittime di quel genocidio, ma anche interrogarsi sul presente. Oggi infatti non possiamo accontentarci solo di commemorare: dobbiamo imparare ed agire, perché quelle 8.372 vittime ci chiamano a costruire un mondo in cui “mai più” non sia solo uno slogan.
Aggiornato il 10/07/25 alle ore 12:22