Il valore della filiera agroalimentare nell’ambito della criminalità organizzata è di 25,2 mld di Euro: un business molto redditizio. Che si innesta in un settore dove i margini possono essere enormi, soprattutto se si va in deroga alle istanze ambientali e sociali. Il sistema alimentare evidenzia in che misura le persone più fragili all’interno della società diventano vittime di disuguaglianze strutturali socioeconomiche, di salute e di accesso ai diritti. D’altronde ghetti e schiavitù, il caporalato, non sono fenomeni legati all’essere migranti, ma all’essere in stato di bisogno, quindi ricattabili.
Un recente rapporto Ismea evidenzia come su cento Euro di spesa alimentare al supermercato, solo 1,50 Euro vanno al contadino, 7 nel caso di cibo fresco.
I produttori che hanno a che fare con la Gdo non possono che accettare il prezzo di mercato e se a guadagnare sono i colossi che impongono le regole, qualcuno, inevitabilmente, ne paga il prezzo: i lavoratori. Perché il fenomeno del caporalato affonda le proprie radici in due aspetti strutturali della filiera agricola: la carenza di strumenti legali per l’intercettazione della manodopera, e le politiche di ribasso dei prezzi d’acquisto dei prodotti da parte degli anelli forti della filiera, cioè intermediari, grossisti, industriali e grandi canali distributivi.
Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia
L’articolo completo sarà disponibile da martedì 22 luglio
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