La Terra Santa è, da sempre, terra di conflitti, conquiste, lotte. Da millenni, sin dai tempi di Gesù che nacque sotto occupazione romana.
Conflitti, tensioni, incomprensioni, lotte, distruzione. Ma in questa terra, come vi ho raccontato più volte, si tocca con mano anche il perdono, il servizio, l’umiltà degli ultimi, il confronto e il conforto, la compassione, la condivisione, l’Amore.
Ne ho parlato con fra Francesco Patton, Custode di Terra Santa dal maggio 2016 al giugno 2025, che fin dall’inizio del suo “pellegrinaggio” in Terra Santa come Custode, ha visto susseguirsi conflitti, ha visto la pandemia, ha visto l’estremismo religioso crescere fino a quello che oggi è negli occhi e nelle orecchie di tutti: la distruzione di Gaza, la morte di almeno centomila persone, il dolore senza partiti presi, la situazione umana – e umanitaria – catastrofica che vive la Palestina.
Fra Francesco, se dovesse raccontarci la sua esperienza come Custode, in Terra Santa, da dove partirebbe?
Prima di tutto bisogna sempre ricordare che la Custodia non si limita a Israele e Palestina; quindi, ha una giurisdizione molto più ampia che comprende, ad esempio, anche Libano, Siria, Giordania, Cipro e Rodi, tanto per stare qui nell’area mediterranea, e ancora una presenza in Egitto. Ma anche il solo fatto di essere presenti in Libano e Siria fa capire che per noi la guerra non è un problema degli ultimi due anni, ma è un problema molto precedente. Quando io sono arrivato nel 2016, la guerra in Siria era nel suo punto più feroce, era all’apice: la battaglia di Aleppo era la più feroce che si fosse vista prima che scoppiasse la guerra in Ucraina e anche prima che scoppiasse la guerra a Gaza. Quindi la nostra visione del problema non è ristretta solo a Israele e Palestina, è un po’ più ampia.
Spesso mi ha raccontato come lei considera i cristiani locali i primi “custodi” dei luoghi santi, protettori di quell’identità cristiana di chi nasce nella Terra di Gesù. Ma qual è la situazione dei cristiani in Terra Santa?
Quando ci sono guerre, i cristiani, proprio perché sono la parte più debole, per così dire, e anche la parte quantitativamente minoritaria, sono quelli che ne soffrono di più. Tant’è che le ultime guerre hanno letteralmente decimato la comunità cristiana in tutto il Medio Oriente. Perché la guerra dell’Iraq, iniziata nel 2002 e – di fatto – non ancora finita ha visto una riduzione della presenza cristiana da un milione e mezzo a 200.000. E la guerra in Siria, che ufficialmente è finita lo scorso inizio di dicembre (in realtà ci sono ancora zone conflittuali, non è stabilizzata, e ci sono interventi esterni, come quelli di Israele) anche lì la presenza cristiana è passata da 2.200.000, che era quasi il 10%, a 400.000, non credo di più. Quindi le guerre colpiscono e decimano i cristiani. Lo stesso si è visto nella recente guerra a Gaza: la comunità cristiana, che già si era ridotta da 5.000 a 1.000, adesso si è ridotta da 1.000 a 500. Quindi, dove ci sono guerre, i cristiani, di fatto, essendo la parte più debole, sono fortemente tentati di emigrare e diminuiscono.
La religione è da sempre, purtroppo, al centro delle incomprensioni e dei conflitti. Perché?
Nel contesto israelo-palestinese ha inciso molto, negli ultimi anni, la crescita di una politica e di una cultura estremista, che ha visto saldarsi sempre di più le posizioni fondamentaliste dal punto di vista del nazionalismo politico con le posizioni fondamentaliste dal punto di vista religioso. Perciò, in questi ultimi anni, sono diventati sempre più influenti i coloni, che sono dei fondamentalisti sia dal punto di vista del nazionalismo politico, sia dal punto di vista del nazionalismo religioso.
Negli ultimi anni c’è stata un’involuzione anche nella società, anche attraverso delle leggi. Quando nel 2018 è stata approvata la Basic Law of Jewish State, una legge costituzionale che dichiara lo Stato di Israele uno Stato non semplicemente ebraico, ma giudaico, quindi con una connotazione religiosa, è chiaro che ci si è spostati sempre di più in direzione di un’identità nazional religiosa. Non dobbiamo mai dimenticare che lo Stato di Israele era nato come uno Stato quasi socialista e sta diventando sostanzialmente uno Stato “religioso”. Quindi c’è stata un’evoluzione molto forte.
L’attacco al villaggio cristiano di Taybeh e alla chiesa della Sacra Famiglia di Gaza ha portato alla luce il vero scopo delle politiche del governo israeliano: annessione totale e realizzazione del “Grande Israele”. Il card. Pizzaballa ha sottolineato più volte, con fermezza, che i pastori spirituali aiutano la propria gente, ma a morire, ogni giorno, sono tutti i Palestinesi.
L’evoluzione della società e anche dello Stato di Israele, in questi anni, va in questa direzione. Come ho detto prima, in questi ultimi anni è stata determinante la presenza al governo di ministri che provengono dal mondo dei coloni, e quindi dal fondamentalismo nazionalista e religioso. Il fondamentalismo nazionalista e religioso vuole il Grande Israele, dal fiume al mare – e magari anche più in là. Quindi è una realtà con la quale, se rimane al potere questo tipo di maggioranza di governo, la Custodia, come tutte le Chiese e tutte le religioni, dovranno confrontarsi.
Noi non dobbiamo avere paura, dobbiamo sempre avere la prudenza di cui ci parla Gesù nel Vangelo, quando ci dice che dobbiamo essere prudenti come i serpenti e semplici come le colombe: questo sempre, in ogni contesto.
Cosa vuol dire?
Il che vuol dire, ad esempio, che noi non dobbiamo mai legarci a nessun carro politico, né qui, né in Siria, né in Libano, né in nessun altro posto. Noi non siamo i chierichetti di questo o di quel regime politico, o di questo o quel partito, o di questa o quella impostazione dello Stato. Al tempo stesso, noi dobbiamo cercare di essere capaci di cooperare con chiunque, e quindi di cooperare con l’amministrazione israeliana in Israele, con l’amministrazione palestinese in Palestina, con quella libanese in Libano, con quella siriana in Siria.
Io amo citare due passaggi del Nuovo Testamento: uno che si trova nella Prima lettera di Pietro e nella lettera agli Ebrei, che dice che noi siamo pellegrini e forestieri in questo mondo, passaggio molto caro a San Francesco; e un altro che si trova nella lettera agli Efesini, che dice che noi siamo concittadini dei santi e familiari di Dio. Allora, io devo sapere che sono pellegrino e forestiero in questo mondo, anche se sono nato qui. Io, che pur sono italiano, devo sapere che, in quanto cristiano, sono pellegrino e forestiero anche quando sono in Italia, perché la meta è altrove. Ma, al tempo stesso, devo sapere che sono concittadino dei santi e familiare di Dio – e lo è, come me, non solo il cristiano che è nato e cresciuto qui e che è discendente di quelli che erano i primi cristiani, ma anche tutti i cristiani lavoratori migranti giunti qui in cerca di un futuro per sé e per i propri cari.
Quale può essere, secondo lei, il lavoro che si può fare dall’esterno, se c’è qualcosa che si può fare dall’esterno?
Quando ci sono conflitti, dal mio punto di vista è importante non assumere l’atteggiamento dei tifosi. Perché nei conflitti sono sempre coinvolte persone, e quindi non si tratta di fare il tifo per la squadra del cuore. Bisogna sapere che in un conflitto c’è gente che muore da una parte e dall’altra. Allora bisogna cercare di informarsi bene su quelle che sono le sofferenze e le difficoltà che vivono gli uni e gli altri.
Non è un caso che anche qui, in Israele, la parte più sensibile alle sofferenze di quelli che stanno a Gaza siano alcuni membri delle famiglie degli ostaggi. Perché chi soffre, se non vive la sofferenza ripiegato su sé stesso, impara a capire anche gli altri che soffrono.
Allora, bisognerebbe che chi sta anche in Italia cercasse di capire la sofferenza delle persone.
E allora bisogna riuscire a capire la sofferenza delle famiglie degli ostaggi, che da due anni non vedono un figlio, un congiunto… e bisogna capire la sofferenza di quelli che stanno a Gaza, che da due anni sono bombardati, affamati, privati dell’acqua, privati della possibilità di andare a scuola, hanno gli ospedali distrutti, le chiese e le moschee bombardate, eccetera eccetera.
Allora, capire la sofferenza, dal mio punto di vista, è fondamentale. Ed è importante ricordare che le sofferenze degli uni e degli altri sono di gran lunga precedenti al 7 ottobre 2023.
Cosa intende?
Quelli che pensano che tutti gli israeliani coincidano con le prese di posizione del governo Netanyahu, sbagliano. Esattamente come chi ha una visione angelicata di quello che succede dall’altra parte. Dall’altra parte ci sono milioni di persone che soffrono e ci sono anche delle persone che, ahimè, hanno approfittato di questa situazione, che non hanno mai cercato il bene del popolo palestinese, ma hanno cercato a loro volta di conservare il potere.
È interessante vedere come i coloni e Hamas abbiano, alla fine, lo stesso fine. Perché i coloni vogliono il Grande Israele dal fiume al mare, e Hamas vuole la Grande Palestina dal fiume al mare. Cioè, tutti e due vogliono avere questa terra in esclusiva.
Allora, quando tu vuoi avere qualcosa in esclusiva, che cosa fai dopo? Butti fuori gli altri, fai pulizia etnica, li costringi ad andare via, cioè fai tutta una serie di cose che sono contro le persone e contro la dignità delle persone.
E ripeto: da una parte e dall’altra ci sono delle strane coincidenze di obiettivi e di pensiero, e perfino di metodo, a volte.
Quindi bisogna invece educarsi a qualcosa di diverso e non farsi prendere dentro questo meccanismo perverso che è il meccanismo dell’odio che alimenta l’odio.
Cosa possiamo fare allora?
Far pressione sui governi, questo certo. Far pressione sul governo italiano, perché a sua volta il governo italiano faccia pressione sul governo israeliano perché la smetta con questa guerra e perché faccia pressione sui paesi del Golfo per far liberare gli ostaggi. Questo è qualcosa che si può e si deve fare, assolutamente.
Far pressione perché a Gaza possano entrare gli aiuti alimentari e medici: questo va fatto, assolutamente; e far pressione perché non si vendano più armi né agli uni né agli altri.
Far pressione perché venga rispettata la dignità delle persone in quanto persone, indipendentemente dalla loro religione o etnia di appartenenza: questo è assolutamente necessario.