Scenari. Alle filiere industriali si affiancano il nuovo capitalismo delle reti e dei servizi e i progetti di rigenerazione urbana
di Aldo Bonomi Dossier Il Sole 24Ore
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando il carbone risaliva il Tevere per arrivare al Gazometro per farsi energia che alimentava la Capitale. Utile partire dalle lunghe derive della storia nel loro farsi sempre più accelerate tanto da chiedere un commento che rimanda al rapporto tra capitalismo delle reti, quello dell’Eni, e il divenire di un distretto urbano nel rigenerarsi dell’area del Gazometro di cui si fa ampio racconto. Racconto interrogante nel suo evocare quella parola dolce e forte che rimanda all’avvincere e al tenere assieme: il distretto. Parola divenuta polimorfa e polivalente nel suo rimando ai fondamentali delle economie via via piegati al definire distretti urbani più da architetti o archistar, distretti culturali evoluti per fare marketing territoriale o distretti turistici con tanto di eventi e festival, distretti sociali nei disagi che tracciano welfare di comunità ed anche il distretto avanzato per l’innovazione sostenibile in tempi di crisi ecologica qui raccontato.
Non sembri un vezzo questo scomporre e ricomporre significato e significante, rimanda probabilmente al suo evocare la voglia e il bisogno del tenersi assieme nel fare economia ed anche città e società che viene. Ci aiuta a capire il nesso tra distretto e capitalismo delle reti partendo dai fondamentali economici.
Iniziammo ad usarla ai tempi del fordismo e delle grandi imprese quando coscienti di essere un capitalismo di trasformazione per dirla con Fuà «iniziammo a coltivare settori poco bazzicati o tutti da inventare… complementari allo sviluppo promosso dai settori chiave dello sviluppo mondiale». Non era forse complementare lo spazio di posizione dell’Eni di Mattei rispetto alle Sette sorelle del petrolio? La parola distretto fu poi sdoganata da Becattini e De Rita, il primo insegnandoci ad immettere nel fare economia “l’intimità dei nessi” delle reti di comunità locali in quell’intreccio tra saperi locali e contestuali e saperi formali spesso imparati nella grande impresa; il secondo andando “dappertutto e rasoterra” a fare racconto di quello che sarebbe poi diventato un brand: il Made in Italy.
Chi non ricorda il tormentone tra piccolo e bello e grande impresa, che non ci ha mai lasciati evidenziato dal titolo di tanti anni fa di questo giornale un po’ riconoscimento un po’ ironia: “sedie bambole e coltelli”. Che mi pare utile superare nell’invitare oggi a raccontare la complementarietà in metamorfosi allora, tra fordismo e postfordismo, per capire quella di oggi tra distretti e capitalismo delle reti sino all’editoriale di De Bortoli “Elogio delle piccole imprese”.
I distretti li abbiamo mappati denominandoli partendo dai prodotti di quelle fabbriche a cielo aperto che facevano geografia non di grandi, ma di piccole e medie città provinciali. Le piastrelle a Sassuolo, le scarpe a Fermo, i salotti nelle brianze e nel materano a fianco della Fiat di Melfi. Si sono meritati rapporti e dossier sino ad arrivare al report annuale di una grande banca…Per poi volare in quella polisemia da salto d’epoca che li porta oggi a confrontarsi con il capitalismo delle reti protagonista per dirla con Fuà, dei settori chiave dello sviluppo mondiale: energia, Internet company, logistica, reti hard e soft che innovano e ridisegnano geoeconomia, città e territori.
Salto d’epoca selettivo di quella intimità dei nessi locali impattati dai flussi delle crisi per cui molti distretti sono sprofondati cercando rifugio nel localismo di antica memoria, per fortuna molti arrancando si sono evoluti e collocati in filiere di medie imprese leader, multinazionali tascabili di un capitalismo intermedio di cui ci dà conto il rapporto Mediobanca sulle medie imprese. Tracciano e sostanziano piattaforme territoriali. Piattaforme che non sono un distretto più grande, ma sistemi territoriali di quell’arcipelago fatto di imprese e città snodo innervate e tenuto assieme dal capitalismo delle reti. Che le tiene assieme tessendo e ritessendo giunture e nodi della conoscenza con centri di ricerca e università, della logistica dell’ultimo miglio e per andar nel mondo, della transizione ecologica nella crisi, di ospedali e medicina di territorio impattato dal Covid, di rigenerazione urbana e funzionale delle città distretto, città medie e in rapporto con le grandi città della “connectography” del sistema mondo.
Ed è così che sospinta dal tumulto delle economie, una parola del territorio è diventata lessico metropolitano in uso al capitalismo delle reti. A Milano troviamo Mind, a Bologna il Tecnopolo, a Napoli la Apple Accademy e adesso a Roma il mitico Gazometro rigenerato si denomina distretto avanzato per l’innovazione sostenibile. Così come nell’intreccio operoso tra distretti e piattaforme collegate dall’Alta Velocità non mappiamo più solo le imprese, ma anche quei capannoni iper tecnologici dei data center, contenitori della merce informazione nell’epoca dell’ intelligenza artificiale.
Rimane da scrivere e ricercare quello che rimane sotto le piattaforme, le vite minuscole del vivere, abitare e lavorare nelle piattaforme territoriali. Senza la costruzione di una piattaforma sociale che fa coesione e giuntura rischiamo di farne un racconto di palafitte infisse nell’arcipelago del territorio. Teniamone conto. Senza montarsi la testa solo con i racconti della ipermodernità che avanza e costringe alla metamorfosi delle economie e del fare città. Rimaniamo pur sempre un sistema paese sul confine del margine delle reti che ridisegnano il sistema mondo sotto sforzo nel rapportarsi ai flussi turbolenti del salto d’epoca. Raccontare esempi di eccellenza e intreccio tra capitalismo delle reti dell’innovazione con distretti, economie, territori e città, è una rappresentazione interrogante il nostro ridefinire lo spazio di posizione nel sistema mondo.
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