A cura di     Luca Tamini   Rivista Trasporti e Cultura n. 70 

Tamini – L’attuazione e il progressivo consolida- mento della transizione digitale hanno gene- rato una serie di rischi e opportunità per il ter- ritorio. A partire dalle argomentazioni presenti nel tuo libro “Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali” quali questioni emergenti intravedi nell’attuale fase evolutiva? Quale ruolo e vocazione avrà, secondo te, lo spazio di prossimità?

Bonomi – Come sempre io parto – credo che sia utile intendersi – con la cassetta degli attrezzi che uno usa per arrivare a scrivere un libro, a fare una titolazione. La mia cassetta degli attrezzi fondamentalmente parte da un paradigma: flussi che impattano nei luoghi e li cambiano antropologicamente, socialmente, economicamente. In questo rapporto tra i flussi e i luoghi si ridisegna la dimensione del territorio, con tutto quello che questo significa: noi, infatti, molto spesso usiamo la parola territorio in maniera indifferente, sia quando parliamo di terra, intesa come la materialità della crisi ecologica, sia come costruzione sociale. In questo rapporto dialettico tra flussi e luoghi, bisogna indagare e raccontare il territorio nella dimensione della costruzione sociale del territorio. Ed è qui che inquadro la tua prima domanda: come si colloca il territorio dentro la dimensione della digitalizzazione che sembra la cosa più estranea del territorio e che più di altri sorvola e si impatta con il territorio? Qui la categoria interpretativa che io uso è prossimità e simultaneità. Il digitale è ciò che rimanda a questo rapporto. Questo è il punto vero delle nuove reti lunghe perché i flussi vanno scomposti e ricomposti.
In questo senso, non c’è dubbio che eravamo abituati a leggere prevalentemente i flussi delle transnazionali, delle multinazionali, delle imprese e della manifattura: il capitalismo delle reti è un flusso nelle sue articolazioni tra reti hard (alta velocità, autostrade, logistica “hard”) e reti soft focalizzate sulla dimensione del digitale. I flussi vanno articolati in questo modo perché altrimenti il vero problema è che tu ragioni e tracci, ad esempio, solo il percorso della bioregione che rimanda “alla conservazione, alla crisi ecologica, alla terra” ma non tieni conto di questi nuovi e inediti processi di costruzione ipermoderna del territorio. In questo senso, l’invito della titolazione del libro era “guar- diamo oltre le mura dell’impresa” suggerendo di osservare quelle che sono le nuove reti territoriali.

Tamini – Nel libro ti chiedi “quando Amazon diventerà committente diretto del made in Italy, delle filiere manifatturiere/artigianali del Nord Est o dei mobilieri brianzoli o più in generale delle filiere dei marchi, (…), quelle comunità operose dei produttori che per lungo tempo hanno strutturato l’identità sociale del Nord prima come distretti poi come piattaforme, avranno voce in capitolo nel decidere i cataloghi digitali del mondo oppure saranno passive piattaforme di ricezione di ordinativi?”. Nelle tue riflessioni emerge con forza il concreto e tangibile conflitto fra flussi e luoghi: come si declinano, a tuo avviso, le nuove forme di organizzazione spaziale e territoriale nella continuità tra città-distretto-reti e le filiere logistiche digitali dei flussi globali?

Bonomi – Evochiamo un altro concetto: dentro la polarità “prossimità e simultaneità” – nel processo di metamorfosi rispetto all’ipermodernità che viene avanti – cambiano le intimità dei nessi, per dirla con Becattini. Non è solo un’intimità dei nessi di prossimità e un problema di reti corte op- pure di reti lunghe nella globalizzazione oppure nei grandi processi di competizione economica ma di reti lunghe dentro la simultaneità. Si arriva quindi al percorso “oltre le mura dell’impresa” dove andiamo oltre il fordismo, la grande impresa fordista, il post- fordismo del capitalismo molecolare, i distretti produttivi, le liere ma ci incontriamo anche con la dimensione di due percorsi: il capitalismo delle reti che innervano il terri- torio e le economie fondamentali – le eco- nomie delle vite minuscole: abitare, vivere, lavorare nelle piattaforme territoriali – dentro un processo “in cui il territorio è attraversa- to contemporaneamente” dalla dimensione delle piattaforme. A partire dalle piatta- forme digitali come i data center che sono i contenitori degli hub digitali: in questo senso, ho molto apprezzato che nella mappatura del Politecnico i data center incomincino a essere censiti e “territorializzati”: sono “i nodi di prossimità della simultaneità” ma senza quella territorializzazione non c’è prossimità e non c’è la simultaneità. In que- sto quadro, riconosciamo sul territorio una pluralità di piattaforme strutturate e differenziate: da quelle manifatturiere ridisegna- te dal capitalismo intermedio organizzate in piccoli distretti, medie imprese, grandi im- prese caratterizzate dalle contraddizioni ed evoluzioni delle filiere e della subfornitura di piccole imprese, alle piattaforme logistiche hard e soft, dalle piattaforme agricole a quelle turistiche che sono contemporaneamente simultaneità dei grandi lussi e prossimità (es. marketing dei luoghi), alle piattaforme ecologiche dove si cerca di di- segnare o di difendere la terra. Il libro ha una tesi di fondo che è molto semplice: tutte queste piattaforme da sole non bastano se non si ricostruisce una piattaforma socia- le. Bisogna prima intendersi sul concetto di piattaforma preso in prestito, non a caso, dal contesto dell’ipertecnologia digitale: le piattaforme non sono solo un distretto più grande, non sono solo la mappatura delle medie imprese. Le piattaforme sono anche il rimappare ciò che serve ad abitare, vivere, lavorare nelle piattaforme territoriali, riconducibile a quelle dimensioni della vita e alle autonomie funzionali dei territori (come le università e il sistema della conoscenza) che innervano la piattaforma di socialità e di coscienza di sé, attraverso le città snodo posizionate tra le due aree metropolitane di Bologna e Milano come Reggio Emilia, Lodi, Piacenza. Qui nella configurazione della piattaforma logistica – dove i lussi li ridisegnano i territori – quando atterra Amazon rappresenta la materializzazione di questi processi: è un lusso ipermoderno e quindi la piattaforma sociale va ridisegnata da questo punto di vista.

Tamini – “A me la parola piattaforma, usata per designare un’area vasta di territorio, fa abba- stanza orrore”: Alberto Magnaghi nel dicembre 2021 in una sua articolata recensione al tuo libro, in un’ottica di governo delle trasformazioni in atto, si chiede come possano fare i corpi intermedi attivi nei rapporti fra ussi e luoghi (autonomie funzionali, università, fondazioni bancarie e di comunità, reti sanitarie e del welfare, …) a “negoziare per conto di comunità locali e lavoratori”, a rappresentare le comunità di luogo, se queste sono disperse, de- boli o non esistono? Tu cosa risponderesti oggi ad Alberto?

Bonomi – Quando mandai il libro ad Alberto, come prima critica e osservazione, colse subito quella ambiguità e ambivalenza nell’u- so del linguaggio da parte mia, nell’utilizzo del termine piattaforma. La mia riflessione era: la piattaforma aumenta e stressa la co- scienza del luogo, stressa la prossimità e la comunità. Magnaghi aveva in mente di map- pare i processi partendo da un termine affascinante – la bioregione – che rimandava alla piattaforma ecologica che, nella sua radicalità, resiste e cambia rispetto ai mutamenti del territorio. Il problema che gli ho sottoposto è che siamo nella fase in cui la coscienza di luogo si deve occupare di vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali, attraverso l’antropologia, le vite minuscole, la ricostruzione delle economie fondamentali, in un contesto dove tutti questi processi hanno frammentato la dimensione del lavoro e la composizione sociale, hanno evidenziato le grandi contraddizioni dell’abitare, del vivere, della qualità della vita. Siamo dentro questa dimensione in cui diventa importante come si ridisegnano i luoghi della piattaforma sociale: non è solo una mappatura degli ospedali, dei luoghi della salute e della medicina di territorio. Si ridisegna tutto in queste piattaforme: il rapporto è tra la coscienza dei luoghi che vanno oltre l’intimità dei nessi dei distretti produttivi e stare “dappertutto e rasoterra” come suggeriva De Rita. Se stai dappertutto e rasoterra, se stai nell’intimità dei nessi, ti rendi conto di questi processi. E quindi è quanto la coscienza di luogo e le nuove forme dei conitti determinano, si rapportano e costringono la coscienza dei ussi. Non tutti i flussi sono indifferenti: il nodo vero è come ridisegniamo questi pro- cessi e quindi l’invito ad andare “oltre le mura dell’impresa” e guardare le piattaforme territoriali che devono assumere una dimensione di coscienza di luogo per contrastare, mitigare, cambiare la coscienza dei differenti flussi. Non basta quindi occuparsi dell’alta velocità, delle pedemontane, delle autostrade, delle reti hard e reti soft che ridisegnano il terri-

torio: il problema è capire come si disegnano le piattaforme e i nuovi conitti. La questione che poneva Magnaghi su come possano fare i corpi intermedi a rappresentare le comuni- tà di luogo, se queste sono disperse, deboli o non esistono, è l’interrogativo politico che mi porto dietro dal libro. Tutti questi processi non hanno, infatti, solo “disarticolato” la composizione sociale e produttiva che ho sommariamente descritto: hanno “disarticolato” le forme di rappresentanza. Questo è il punto. E quindi pensiamo alla disarticolazione della forza lavoro dentro “i cambiamenti” di innovazione, dentro la manifattura oppu- re alle diverse forme di disarticolazione: della forza lavoro rispetto alla logistica, della rete commerciale rispetto ad Amazon, delle rappresentanze tradizionali rispetto al discorso distretto, liera, piattaforma. Questi fattori rimandano alla crisi di quella società di mezzo descritta da De Rita – il sistema della rappresentanza – ed è una crisi prepolitica che rimanda ai grandi processi di disarticolazione della rappresentanza. A fronte di questo passaggio, è in atto una serie di “processi” in cui le comunità locali incominciano a strutturar- si, esprimendo domande rispetto all’abitare, alla sanità, alle competenze, alla salute, all’informazione. Il libro termina – e le mie conversazioni con Alberto terminavano – suggerendo fondamentalmente che il problema fosse focalizzato sulla ricostruzione del tessuto: se le intimità dei nessi sono state disarticolate ma “producevano” anche solidarietà – e non solo distretti produttivi – bisogna ricostruire la piattaforma sociale e riprendere e costruire all’interno i nuovi valori di legame. Parlando del processo, questo è il punto vero, chi si mette in mezzo e cerca di capire? Se il problema attualmente è una resistenza operosa rispetto ai flussi, articolata nella coscienza di luogo che viene avanti, chi si mette in mezzo tra il conflitto ipermoderno, la dimensione della coscienza di luogo e l’incoscienza dei flussi? Come si ricostruisce l’urbano regionale disegnato da Sandro Balducci inteso come piattaforma territoriale e come nuova declinazione della città infinita? Come si costruisce una piattaforma sociale nell’urbano regionale?
Questa è la domanda: chi rappresenta questa domanda?