La «Lectio magistralis» di Maaza Mengiste, Per il Premio speciale Lattes Grinzane 2025. Giulio Einaudi editore

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Pubblichiamo la «Lectio magistralis» che Maaza Mengiste ha tenuto l’11 ottobre 2025 in occasione del Premio speciale Lattes Grinzane.

È scritta in forma di lettera a un amico, per convincersi che non si è soli in questi tempi terribili, ed è stata tradotta da Anna Nadotti.

    Caro M,

   perdona il mio silenzio. È un po’ che non ti scrivo, lo so, ma c’è stato uno sfocarsi dei mesi e mi è sempre più difficile distinguere un giorno dall’altro, circondata come sono da uno sconvolgente susseguirsi di notizie e immagini. Mi chiedo se è lo stesso per te. Mi addormento quando a un altro fuso orario le atrocità sono in corso da ore. Mi sveglio con la notizia di un attacco di droni israeliani a un caffè di Gaza nel pomeriggio. I miei pomeriggi scorrono mentre le famiglie si preparano per la notte tra le bombe. Da Gaza al Sudan al Congo all’Etiopia all’Ucraina e perfino qui, negli Stati Uniti, da dove ti scrivo, la consueta progressione del giorno è distorta dalla vertiginosa velocità con cui il mondo che conosciamo sta andando a pezzi. Il movimento del tempo non è più una marcia regolare di minuti e di ore. E certi momenti, come quando guardo un video o una foto che mostra un corpo umano così crivellato dai proiettili da non aver più nulla di familiare, certi momenti contribuiscono a fermare il tempo. Mi è stato difficile passare il giorno con le sue abitudini e appuntamenti cogliendovi una qualche coerenza. Può succedere qualunque cosa. Ciò che un tempo era inimmaginabile è ora mostruosamente visibile. Succede di tutto, tutto insieme, no stop.

   Anche tu, come me, senti che siamo un passo più in là rispetto alla giusta sequenza delle cose? Che siamo scivolati in uno spazio fuori dal tempo e oltre la logica? Anche tu, caro M, come me, senti che siamo bloccati contro la nostra volontà in un circolo vizioso di irrazionalità?

   Difficile credere che da due anni ormai vediamo persone uccise con armi da fuoco e bombardamenti a Gaza. Sono più di tre anni che cerchiamo di capire le assurde e irreparabili aggressioni ai civili in Tigrai, soprattutto alle donne e le ragazze. Abbiamo assistito mentre la violenza cresceva fino a coinvolgere le regioni degli Amara e gli Afar e io aspettavo notizie da amici e familiari. Una violenza  catastrofica e la fame opprimono il Sudan e la Repubblica democratica del Congo, e non so più se ti scrivo alla luce del giorno o dal buio più profondo della mia memoria personale.

   Comincio a capire che queste mie lettere a te sono state il tentativo di scoprire cosa significa sperare, e di convincermi in qualche modo che non sono sola. Sono state la mia ricerca di un linguaggio per i tempi che viviamo. Perciò mi rivolgo di nuovo a te e ti chiedo pazienza e attenzione perché temo che abbiamo oscurato anche il linguaggio e ci avvitiamo ora al di fuori del significato. Ogni parola che uso qui è sospetta, un agente bifronte che potrebbe tradire quanto confortare.

   In una delle nostre lettere, l’anno scorso, eravamo d’accordo sul fatto che la speranza è un caparbio rifiuto di crollare, vuoi nel silenzio o nell’indifferenza. D’accordo sul fatto che è impossibile sapere quel che proviamo salvo ammettere che potremmo non riuscire mai a comprendere appieno la profondità delle nostre emozioni. D’accordo anche, amico mio, sul fatto che potrebbe toccare alle generazioni future capire chi davvero siamo stati in questi tempi terribili.

   Eppure, nella tua ultima lettera, non mi hai chiesto in quali parole, ma in quale immagine io abbia cercato conforto negli ultimi anni. Confesso che non so rispondere. Quale immagine non ha ceduto sotto il peso di questi lunghi mesi?

   Ricordi la lettera che ti scrissi da Gerusalemme est alla fine di maggio del 2023? Seduta nel mio albergo, mi apprestavo a far visita a palestinesi che lottavano per il loro diritto di esistere nelle proprie case e sulla propria terra. Dalla finestra, udivo i giochi sfrenati dei ragazzini nel cortile di una scuola vicina. Mi chiedo se questo ricordo, che trovai così gioioso a dispetto delle difficoltà del luogo, sia forte abbastanza per contrastare l’assalto di tutto ciò che è accaduto dopo quel primo sabato dell’ottobre 2023. Per trasportare nel presente quell’immagine di ragazzini palestinesi che cantano e giocano, devo confidare nella sua capacità di attraversare il tempo e mantenersi intatta, non compromessa da tutti gli altri bambini uccisi, mutilati o scomparsi sotto i bombardamenti aerei e le cannonate israeliane. Devo sforzarmi di credere che tra quel momento e questo non ci sia un paesaggio deturpato. E non ci riesco.

   Sotto un fuoco incessante di inimmaginabile violenza non sono andati distrutti solo immagini o ricordi come quello, ma anche la mia comprensione di ciò di cui siamo capaci. C’è stata una grottesca esibizione di forza e malvagità. Abbiamo assistito anche a dimostrazioni di eroismo e dignità sorprendenti da parte di comuni esseri umani di fronte a un odio militarizzato e osceno. Ovunque ti giri vedi la frase «Mai dimenticare», che è slittata dal suo specifico riferimento all’Olocausto per includere il genocidio di palestinesi compiuto da Israele a Gaza. I ricordi del periodo trascorso in Cisgiordania e a Gerusalemme est, e tutte le foto, i video, le suppliche disperate e il caparbio rifiuto di arrendersi alla disperazione giunti da Gaza sono un peso che porterò con me in un ipotetico futuro in cui riuscirò a metterlo da parte e dargli un nuovo significato.

   Mai dimenticare. Non credo che dimenticheremo mai. Ma non so se sarò capace di raccogliere i pezzi di tutto ciò che è stato distrutto – compresa la mia fiducia nel potere delle parole – e dargli una coesione che non vacilli tra le ombre di quest’epoca violenta. Ciò che intendo dire è: mentre decidiamo di non dimenticare mai, come troviamo un modo per comprendere il presente?  Cosa ne facciamo delle rovine sparse davanti a noi, ogni frammento un’accusa alla nostra complicità, alla nostra inutilità? Cosa ne facciamo di tutte queste memorie?

   So che citerai John Berger e Susan Sontag. So che richiamerai Walter Benjamin e le nostre conversazioni sull’angelo della storia. Un tempo mi attenevo fermamente a molte di queste teorie, le usavo come capisaldi per approfondire il concetto di testimonianza e ciò che significa guardare foto di atrocità. Ma quanto è accaduto e si è ostentato a Gaza è qualcosa che schernisce l’intelletto. È la forza bruta che confuta e ridicolizza i nostri tentativi di trovar rifugio nella mente. Denuda le nostre teorie e ce le mostra per quello che sono: semplici parole che pensavamo incrollabili come montagne, baluardi contro la confusione e il caos. Ci ha ammutoliti.

   Quelle che mi guidano oggi sono piuttosto le voci di Alia Al-Sabi e Amany Khalifa, due studiose palestinesi in esilio che dal 7 ottobre 2023 vanno cercando insieme un modo per capire ed esprimere cosa significhi assistere al genocidio israeliano del proprio popolo a Gaza. Con una serie di scambi approfonditi e risoluti, hanno cercato di trovare un linguaggio per comprendere la catastrofe che si sta consumando a Gaza. Hanno pubblicato questi scambi in saggi raffinati e spaventosamente intensi e provocatori.

  «Da qualche parte dobbiamo cominciare», dicono all’inizio di una delle loro pubblicazioni, The Light Through the Shards [La luce tra i cocci], e io ci sento sia determinazione sia esitazione, come se anche loro fossero stordite dagli eventi. Continuano: «Il progetto di genocidio non è nuovo nè recente, lo sappiamo. L’abbiamo sempre saputo. Ma la rapidità e la scelleratezza di questa fase di annichilimento ha colpito con una forza meteorica, tesa a insediare in noi la sconfitta, a stordirci nella paralisi. Scriviamo perché è un antidoto alla disperazione».

   Parlano l’una all’altra della Palestina in quanto palestinesi. Sono impegnate in una serie di conversazioni non necessariamente destinate ad estranei. Eppure la pubblicazione di The Light Through the Shards mi ha permesso di accostarmi a loro e ascoltarle. Di questo sono loro grata, e stupita e mortificata dalla loro fiducia nelle parole, dalla loro fiducia nella scrittura come un mezzo per risollevarsi dalla disperazione che ha stretto tanti di noi nella sua morsa. Ciò che mi colpisce è la loro affermazione che qualunque testo esse ricavino dalla loro corripondenza – in questo caso, The Light Through the Shards – richiede una «instabilità formale», una struttura letteraria che rifletta il sentiero frammentato e spesso disorientante che hanno percorso cercando di comprendere appieno e raccontare il nostro tempo.

  Voglio soffermarmi sulla loro sottolineatura di «instabilità formale». Le due studiose affermano che il risultato del loro viaggio malcerto e imprevedibile verso il significato dovrebbe riflettersi non solo in ciò che dicono, ma anche nel modo in cui strutturano il loro pezzo. Ogniqualvolta si sentono troppo inorridite per le parole, o sommerse da un caos che impedisce il fluire di un pensiero coerente, lo si deve vedere anche nella forma. Vale a dire che la struttura del testo, anziché mascherare l’attonita incomprensione di quanto sta succedendo a Gaza, deve rendere evidenti le loro incertezze, le battute d'arresto e le ripartenze, i silenzi. Ciò che Alia e Amany mi aiutano a capire è il modo in cui la «forza meteorica» che sta cercando di annichilire i palestinesi sta anche demolendo le fondamenta di un linguaggio lineare, coerente; sta disgregando la corretta sequenza di un arco narrativo e distruggendo il movimento progressivo e senza intralci del pensiero.

   Questa forza sta erodendo anche il significato. Quante volte possiamo definire orribile, insopportabile o straziante qualcosa prima di confrontarci con l’inutilità non solo delle parole, ma anche delle nostre risposte angosciate? Sediamo davanti ai nostri schermi, sottoposti alla prova quotidiana di essere fatti per conciliare significato, sentimenti e parole, in un mondo che non produce senso logico. La «forza meteorica», come Alia e Amany definiscono l’aggressione israeliana appoggiata dall’Occidente a uomini, donne e bambini innocenti, ha spinto le sue vittime in uno spazio governato dalla sua stessa logica avida e assassina. E siamo in trappola anche noi, la nostra rabbia e frustrazione cadono nel vuoto, lasciando silenzi dai quali cerchiamo di ricavare una risposta coerente e altrettanto potente. Così abbiamo manifestato, e gridato, e firmato petizioni, e ci siamo appellati ai nostri rappresentanti politici. Abbiamo trasformato le parole in azioni fisiche e le nostre voci sono riecheggiate da un paese all’altro, da una lingua all’altra, e non c’è dubbio che abbiamo assistito a un progressivo e consapevole spostamento dell’opinione mondiale su quanto sta succedendo a Gaza: è un genocidio, dicono gli esperti; è un genocidio, dicono gli attivisti. È un genocidio, i palestinesi lo dicono fin dall’inizio. Resta peraltro il fatto che abbiamo assistito al continuo, straziante e spaventoso annientamento dei palestinesi. Quali parole ci restano? Credo, amico mio, che per descrivere e riflettere su questa forza catastrofica e fulminea, abbiamo bisogno di qualcosa che ne mostri le fondamenta irrazionali e instabili.

   Cosa ci resta se il significato morale che il mondo ha costruito intorno a frasi come «Mai dimenticare» e «Mai più», e tutti i termini legali che hanno dettato un quadro internazionale su come vanno trattati gli esseri umani, si sono rivelati inconsistenti? Cosa resta se tutte le nostre leggi, i nostri rifiuti e la nostra memoria storica si mostrano incapaci di fermare un progetto genocida che sta rimuovendo un intero gruppo di persone dalle loro case e la loro terra? Come Gaza, ora ridotta in macerie, il linguaggio è crollato, e chi sta cercando un varco fra i detriti deve farlo sapendo che a ogni passo attraversa un territorio reso sacro e sacrilego da tutti i morti che tiene prigionieri, in attesa di essere riconosciuti.

  Non dovremmo allora riconoscere questi vuoti, questi resti frammentari e frantumati di linguaggio? E tener presente che in un mondo scivolato fuori dalla logica con le sue crudeltà e manipolazioni – un mondo che oltre a Gaza include la Cisgiordania, il Tigrai, il Congo, il Sudan, la Siria e altri luoghi – ci troviamo in realtà ad affrontare non l’annientamento del linguaggio, ma il tentativo di supremazia di un altro tipo di linguaggio, un’altra forma di espressione?

   Dinanzi a noi sta un altro vocabolario. Che ha dimestichezza con chiasso e crudeltà oscene. Assume la forma di un carro armato. Di una presunta struttura umanitaria che causa centinaia di morti. È un proiettile. È un gas. È un bulldozer. È un soldato seduto in una casa non sua, in una città non sua, che sventola la biancheria di una donna che non sta più in casa propria, non è più autorizzata alla propria intimità. Una malvagità concreta e tangibile che si nutre del mio accorato stupore. Distrugge le mie parole, e quel silenzio mi è sembrato una sconfitta. Per molti giorni sono rimasta muta, in preda alla disperazione.

   Ma avevi ragione quando mi hai detto: Noi dobbiamo guardare. Dobbiamo ricordare. Non possiamo distogliere gli occhi, dobbiamo testimoniare finché le parole non torneranno. Eppure, ogni immagine che ho visto è stata spenta da immagini altrettanto urgenti e più nuove che non possono aspettare e vanno viste. Sembra che io non riesca a guardare abbastanza in fretta, o abbastanza a lungo. Di qualunque cosa si tratti, sembra che io sia sempre alla ricerca di parole, che mi aggrappi all’aria, girando a vuoto nella cacofonia.

  Siamo anche in lotta col tempo, amico mio. Siamo prigionieri della velocità con cui tutto avviene. Non c’è stato modo di riflettere. Abbiamo vissuto in uno stato di choc e dolore permanenti, e la nostra immaginazione ne ha sofferto. L’immaginazione deve soffrire, o no? Che diritto ha di mantenersi integra e illesa, quando si è dimostrata inadeguata di fronte a tutto ciò che può essere inflitto al corpo umano? Un anno fa ti dicevo: Penso che abbiamo visto tutto. Lo dicevo perché le mie ricerche mi portano spesso a contatto con testimonianze e foto di atti orribili. Ho parenti che in prigione hanno subito forme di abuso che tuttora, a distanza di decenni, li lasciano senza parole e in lacrime. Pensavo non ci fosse nulla di nuovo da vedere, anche se ciò non avrebbe attenuato la brutalità dell’orrore. Ma peccavo d’ingenuità. Anche ora, mentre ti scrivo, il genocidio sta raggiungendo nuovi livelli di atrocità indicibili. Quello che le autorità israeliane infliggono ai sopravvissuti di Gaza – e il mondo intero permette che accada – ci ha spinto oltre ciò che la maggior parte di noi è capace, credo, di immaginare.

   Lasciami tornare all’insistenza di Alia Al-Sabi e Amany Khalifa sulla «instabilità formale» del loro saggio. Disperate e incapaci di capire, hanno scelto di non camuffarlo scrivendo un pezzo lineare, di fattura accurata. Optando invece per una forma narrativa imprevedibile che spezza le norme della struttura letteraria e che, con il loro uso della fotografia, entra nel territorio del linguaggio visuale. Lo fanno, dicono, «perché ci siamo spesso trovate nell’impossibilità di esprimerci in modo pienamente comprensibile». Il testo non poteva essere scritto se non con una «instabilità formale» che rifletta il loro sconcerto e l’angoscia emotiva e mentale. The Light Through the Shards utilizza pensieri frammentari, una foto in bianco e nero sgranata del raggio di sole che illumina una strada alberata, e pagine bianche. Leggiamo il procedere frammentario della loro conversazione, testimoniamo del loro silenzio. E possiamo individuare i momenti in cui solo una foto può esprimere ciò per cui loro non hanno trovato le parole. Alcuni paragrafi consistono di una sola frase o cominciano a metà di un pensiero.

    Per esempio:

In cui il tempo passato diviene intercambiabile
con il tempo presente e la linearità del pensiero è
continuamente interrotta, talvolta pervasa di
un avvenire inevitabile

in cui le voci talora si affollano su
una pagina, solo per cedere a un assoluto silenzio.       

In cui le parole semplicemente falliscono.           

   La pubblicazione, un libriccino, presenta sezioni in cui il testo appare solo sul lato destro quando giri la pagina. Sul lato sinistro c’è un’ombra spettrale dello stesso testo, nient’altro, come se l’inchiostro fosse colato dal lato destro sul sinistro quando il libro era chiuso. Questa struttura narrativa, non convenzionale quanto sorprendente, non è un’anomalia nel processo di scrittura, bensì parte della scrittura stessa. La forma che hanno scelto riflette il loro intrappolamento nel caos del progetto d’Israele di ripulire Gaza dai gazawi. Le autrici prendono atto di silenzi e spazi bianchi, ma ritengono che scrivendo da dentro la propria disperazione potranno generare degli echi destinati a occupare lo spazio dove non c’era traccia della loro storia e del loro popolo. Vogliono che anche il silenzio contenga significato.

   Traendo ispirazione da Alia e Amany, comincio a chiedermi se, anziché pensare di essere al di là di ogni logica o di girare a vuoto in un mondo irrazionale – l’abbiamo pensato entrambi – non dobbiamo invece ammettere che siamo in un contesto nuovo per il quale va approntato un altro tipo di vocabolario. Forse il silenzio e l’incapacità di capire, il dolore e la rabbia che spesso m’inducono a cercare inutili parallelismi nella storia e vacue metafore, forse questi vaghi tentativi di chiarezza ed espressione non vanno scartati, ma usati. Chissà che dal guardare in faccia la disperazione, anziché distogliere lo sguardo, non possa venire una inedita comprensione.

   Forse questo significa che l’impotenza muta e l’incapacità di verbalizzare che abbiamo sperimentato è parte del linguaggio. Forse non è che siamo stati spinti oltre la logica, ma che dobbiamo ricostruire una logica onde riconoscere e contenere le perdite e le violazioni cui abbiamo assistito. Lottare per la giustizia, dunque, non significa solo riconoscere l’incomprensibilità di quanto avviene sotto i nostri occhi, ma anche rifiutare di arrendersi e costruire nuove fondamenta dalle rovine. Il nostro compito è creare una nostra forma di linguaggio instabile ma ribelle dallo spazio attonito e apparentemente bloccato in cui siamo.

   Comincio a pensare, amico mio, che non sia nostro compito attribuirgli un senso. Non è questo il lavoro che ci spetta. Ciò che dobbiamo fare, il nostro dovere, è rispecchiare le devastazioni che questa forza meteorica ha inferto non solo a Gaza e ai palestinesi, ma al mondo. Dobbiamo insistere sulla «instabilità formale» del nostro modo di esprimerci, ossia rifiutarci di considerare normali o stabili o in qualunque modo accettabili i tempi che viviamo. La lingu

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