Dottor Guido Basilisco (Ca’ Granda): “Con il nostro lavoro volevamo essere utili a chi in corsia o in ambulatorio affronta, magari per la prima volta, questa patologia rara e complessa”
Vomito, dolore addominale, alvo prevalentemente stitico, abnorme distensione di ileo e colon e livelli idro-aerei visibili all’indagine radiologica dell’addome: un quadro clinico che suggerisce un’occlusione intestinale, ma che in assenza di una vera e propria ostruzione meccanica deve far pensare alla pseudo-ostruzione intestinale cronica (CIPO), una malattia subdola, difficile da diagnosticare e ancor più ostica da trattare. Un articolo italiano, pubblicato sulla rivista Neurogastroenterology and Motility, aiuta a fare chiarezza sul tema, proponendo una serie di criteri pratici per riconoscere precocemente la condizione e individuarne il sottotipo.
“Con questo nostro lavoro abbiamo cercato di proporre una sorta di guida alla diagnosi di CIPO utile a personalizzare il trattamento”, evidenzia il primo autore dell’articolo, il dottor Guido Basilisco, dell’Unità di Gastroenterologia ed Endoscopia dell’IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, da più di trent’anni punto di riferimento regionale per questa malattia rara. “L’obiettivo non era quello di realizzare una revisione accademica, ma di essere utili a chi in corsia o in ambulatorio affronta, magari per la prima volta, questa complessa patologia”. Il valore di questo articolo, tra l’altro riconosciuto da Neurogastroenterology and Motility come Top Viewed Article nel 2023, risiede proprio nella sua praticità. “Vuole essere un documento operativo – sottolinea il gastroenterologo – perché i pazienti affetti da CIPO hanno bisogno di risposte rapide e concrete”.
LA PATOLOGIA
“La CIPO rappresenta la più rara e grave patologia della motilità gastrointestinale”, spiega il dott. Guido Basilisco. “Nei pazienti che ne sono affetti, il tono della parete intestinale risulta ridotto e il transito intestinale è rallentato o bloccato a causa del malfunzionamento della peristalsi, la famosa ‘spinta’ che consente il passaggio del contenuto alimentare lungo il tratto digestivo. La gravità della malattia può variare notevolmente, passando da forme quasi prive di sintomi a situazioni severe e invalidanti, in cui può rendersi necessaria la nutrizione parenterale”.
RICONOSCERE I SOTTOTIPI DI CIPO
“Individuare la pseudo-ostruzione intestinale - a patto di conoscerne l’esistenza - non è troppo complicato: se ci si trova di fronte a un intestino cronicamente dilatato, in assenza di occlusione meccanica la spiegazione più plausibile è che si tratti di CIPO”, osserva il dott. Basilisco. “Purtroppo, però, dopo questa intuizione iniziale, il percorso diagnostico si complica: innanzitutto occorre accertarsi che effettivamente non sia presente nessuna lesione o massa sfuggita alla valutazione iniziale; in secondo luogo, è necessario distinguere tra le numerose forme di pseudo-ostruzione intestinale secondarie, ossia legate ad altre patologie, come la malattia di Hirschsprung, l’amiloidosi o le malattie mitocondriali (in questi casi il trattamento è diretto alla condizione sottostante); infine, nelle forme di CIPO primitive oppure in quelle idiopatiche (ovvero apparentemente prive di una causa nota), andranno riconosciuti due sottotipi di patologia ormai ben definiti, quello da causa autoimmune e quello da causa genetica”.
CIPO MIOPATICA E NEUROPATICA
In generale, la pseudo-ostruzione intestinale cronica può derivare da un danno al sistema nervoso enterico (neuropatia viscerale), alla muscolatura liscia intestinale (miopatia viscerale) o alle cellule interstiziali di Cajal, le cosiddette ‘cellule pacemaker dell’intestino’ (mesenchimopatia). Secondo la guida redatta dal dott. Basilisco e dalle dottoresse Margherita Marchi e Marina Coletta, attraverso la raccolta sistematica di dati clinici, biochimici, radiologici, istologici e manometrici è possibile orientare, seppur non in modo specifico, la distinzione tra la CIPO a prevalente interessamento muscolare (miopatica) e quella a maggior coinvolgimento nervoso (neuropatica). “In particolare, gli esami manometrici, misurando le variazioni di pressione all’interno del lume intestinale, permettono di distinguere le forme miopatiche, caratterizzate da contrazioni deboli, da quelle neuropatiche, in cui le contrazioni sono di ampiezza normale ma disorganizzate”, specifica il dott. Basilisco.
FORME GENETICHE E AUTOIMMUNI
La presenza di specifici autoanticorpi circolanti, come gli anticorpi anti-Hu, anti GAD o anti-muscolo liscio, orienta la diagnosi verso il sottotipo autoimmune di CIPO. Gli anticorpi anti-Hu sono i più rilevanti dal punto di vista clinico: sebbene in alcuni casi possano essere indicatori di una forma di CIPO paraneoplastica [secondaria alla presenza di un tumore, N.d.R.], in altri possono essere associati a un’infiammazione cronica dei plessi nervosi enterici, che appare istologicamente come una ganglionite linfocitaria cronica, cioè con un accumulo di linfociti intorno ai gangli del plesso mienterico [la rete nervosa che controlla la motilità intestinale, N.d.R.]. “Visto che questi pazienti potrebbero trarre giovamento da terapie immunosoppressive, che comunque non sono esenti da effetti collaterali, sarebbe opportuno, prima di iniziare il trattamento, riuscire a confermare la diagnosi con una biopsia a tutto spessore della parete intestinale”, sottolinea il dott. Basilisco. “Tuttavia, trattandosi di una procedura invasiva, che potrebbe compromettere ulteriormente la motilità intestinale, l’indicazione alla biopsia va valutata con cautela, caso per caso. Proprio per questo motivo, considerando che questi pazienti vengono spesso sottoposti a ripetuti interventi chirurgici, sarebbe fondamentale conservare campioni di tessuto a tutto spessore prelevati durante le operazioni”. L’indagine istologica, infatti, rende più accurata la diagnosi e permette di orientare meglio le scelte terapeutiche: poterla effettuare senza dover ricorrere a una biopsia aggiuntiva rappresenterebbe un grande vantaggio.
Una volta escluse le forme di CIPO secondarie o di origine autoimmune, l’attenzione deve focalizzarsi su una possibile forma geneticamente determinata. “In alcuni casi, sono la stessa storia familiare del paziente o alcuni aspetti clinici caratteristici a orientare la diagnosi. Ad esempio, il coinvolgimento delle vie urinarie, con difficoltà nello svuotamento della vescica, o la presenza di malformazioni, come il megauretere o la megavescica, insieme ad un’inefficace motilità esofagea, possono far propendere verso una mutazione del gene ACTG2, la più frequente delle alterazioni genetiche associate alla CIPO”, specifica il dott. Basilisco. “Oltre ad ACTG2, vanno indagati anche i geni MYH11 e FLNA, mentre lo screening per i geni TYMP e POLG va considerato nel sospetto di una possibile presenza di encefalomiopatia mitocondriale. In questo contesto, va sottolineato come le indagini genetiche condotte nei singoli pazienti possono contribuire a migliorare la comprensione delle forme idiopatiche di CIPO, come emerge, ad esempio, da un caso clinico che abbiamo recentemente pubblicato su Frontiers in Genetics, in cui una nuova mutazione nel gene FLNA risulta associata a un fenotipo di CIPO miopatica con esordio nell’età adulta”.
TERAPIE MIRATE
Il trattamento della CIPO varia in funzione della severità della malattia e del sottogruppo di pazienti. “Per le forme infiammatorie o autoimmuni, risultati incoraggianti sono stati riportati con le terapie immunosoppressive. Tuttavia, si tratta di una strada da percorrere con prudenza, monitorando attentamente l’andamento clinico del paziente – puntualizza il dott. Basilisco – in quanto l’esperienza in merito all’uso di farmaci immunosoppressivi nella CIPO rimane limitata, e la sicurezza e l’efficacia a lungo termine di questi medicinali sono ancora tutte da confermare”.
Attualmente, per le forme genetiche di CIPO non esistono terapie specifiche, ma la diagnosi riveste comunque un ruolo cruciale poiché implica la consapevolezza di una malattia ereditaria che coinvolge non solo il paziente ma anche la sua famiglia. “In questo ambito stanno emergendo nuovi approcci, come l’editing genomico o l’uso di organoidi derivati da cellule staminali, che appaiono promettenti per lo sviluppo di nuove terapie, anche se ci vorrà del tempo prima che queste entrino a far parte della normale pratica clinica”, evidenzia il dott. Basilisco. “Nell’attesa di trattamenti più specifici e mirati, la gestione dei pazienti affetti da CIPO si concentra sul controllo dei sintomi e prevede l’uso di procinetici, la somministrazione di cicli di antibiotici, volti a evitare l’eccessiva crescita batterica, e il supporto nutrizionale, sia enterale che parenterale”.