Come l’assenza di regole sugli affitti brevi ha trasformato le case in asset finanziari, svuotato i centri storici e messo in crisi il diritto all’abitare.
In Italia continuiamo a parlare di case come se fossero un semplice asset economico, un bene su cui investire o da mettere a reddito. È un approccio che ha finito per oscurare la funzione sociale dell’abitare, che è invece ciò che permette a una città di esistere: la presenza stabile delle persone, la continuità delle relazioni, la possibilità di immaginare un futuro.
Quando questa base viene meno, il resto si indebolisce di conseguenza: l’economia locale, il commercio quotidiano, la qualità dei servizi, perfino il senso di identità che lega le comunità ai loro luoghi.
Negli ultimi anni questo equilibrio si è spezzato. Le città d’arte (e non solo) stanno vivendo una fuga silenziosa e costante. Si tratta di un processo che riguarda i laureati che scelgono di andare all’estero, ma anche le giovani coppie, i lavoratori, le famiglie che vorrebbero costruire una vita autonoma e non riescono più a sostenere i costi di un’abitazione nei centri storici.
Mentre i residenti se ne vanno le città diventano più fragili e noi assistiamo, quasi inerti, a una lenta morte civile.
Se pensassimo che turismo sia la vera causa di questo processo, finiremmo per scambiare la freccia con il bersaglio. La vera causa è da cercare nell’assenza di una regolamentazione efficace, che ha accelerato una dinamica che oggi è sotto gli occhi di tutti. Molti centri urbani sono stati consegnati interamente alla rendita breve.
Per anni ci siamo raccontati che questa trasformazione fosse un’opportunità, una forma di microeconomia familiare diffusa.
In realtà, le analisi delle principali piattaforme mostrano ormai un quadro molto diverso: la maggior parte delle inserzioni appartiene a soggetti che gestiscono più unità immobiliari, spesso società strutturate, talvolta con sede all’estero.
Questo ci suggerisce la nascita di un nuovo ceto sociale, “gli host” (soggetti ospitanti) di immobili offerti sulle piattaforme. Secondo il Future Urban Legacy Lab del Politecnico di Torino che ha pubblicato “Chi gestisce davvero il mercato AirBnB?”, in Italia sono 350 mila gli immobili destinati agli affitti brevi e gli host gestiscono in media 2,1 appartamenti per ciascuno.
Non è più la famiglia che mette a reddito una stanza in più, è un mercato parallelo, professionale, che si muove con logiche speculative e con una scala che supera di gran lunga ciò che possiamo considerare ospitalità domestica.
A Firenze, ad esempio, un’analisi di Progetto Firenze su dati Inside Airbnb conferma questo quadro, nel centro storico infatti addirittura il 70 per cento degli annunci, è gestito da host che possiedono più di un alloggio.
Le conseguenze sono visibili. In alcune città italiane la crescita degli affitti brevi ha compresso in pochi anni l’offerta di case disponibili per i residenti, ha spinto i prezzi verso l’alto e ha modificato la composizione sociale dei quartieri.
Le città che avrebbero bisogno di stabilità vedono invece aumentare la mobilità, l’intermittenza, l’impermanenza. È un modello denunciato a Venezia da associazioni come Ocio Venezia fino a Napoli da associazioni come Liberi Edizioni e che si replica sistematicamente ovunque non esista una regolamentazione adeguata.
Molte città europee hanno compreso che la questione non riguarda il giudizio sul turismo in sé, ma la necessità di governarne gli effetti. Amsterdam ha scelto una linea chiara. L’obbligo di registrazione per gli host, un limite temporale di 30 notti annue per l’affitto dell’intera unità abitativa, il requisito della residenza principale per poter affittare e restrizioni zonali in alcuni quartieri storici.
In questo modo gli affitti brevi tornano alla loro funzione originaria, quella che li caratterizzava già nel mondo anglosassone negli anni Venti, ovvero un’estensione dell’ospitalità familiare, non un segmento dell’immobiliare commerciale mascherato da residenziale.
È un principio semplice, che in Italia potrebbe riportare equilibrio nelle aree più fragili: permettere gli affitti brevi solo quando l’host vive realmente nell’immobile. Una stanza in più, non un appartamento sottratto alla residenzialità.
Scrivo queste considerazioni non da esterno al settore, ma come CEO di Visit Italy, una piattaforma culturale che vive di turismo e che ha costruito negli anni un rapporto stretto con decine di territori. Questo mi ha reso ancora più evidente un punto, non esiste turismo di qualità senza comunità di qualità.
L’identità di un luogo non è un elemento decorativo, è la condizione che rende quel luogo desiderabile. Se i residenti se ne vanno, se il commercio di vicinato viene sostituito da attività rivolte esclusivamente ai visitatori, se i servizi essenziali si riducono, anche l’attrattività turistica si indebolisce.
Non serve immaginare scenari estremi per comprenderlo. Basta osservare cosa accade oggi in molte città in Italia ed all’estero, un turista che cerca un panificio o una bottiglia di latte si accorge di trovarsi in un quartiere che non funziona più per chi ci vive, ma soltanto per chi passa.
È la perdita di questa normalità a rendere le destinazioni più vulnerabili, più simili tra loro, più intercambiabili. Barcellona ad esempio, vieterà gli affitti brevi entro il 2029. Le oltre 10mila licenze, in scadenza nel 2028, non saranno rinnovate.
Restituire le città ai residenti non significa opporsi al turismo, ma proteggere ciò che lo rende possibile. Per farlo servono strumenti normativi chiari, controlli adeguati e un riconoscimento urbanistico più coerente. Parallelamente servono tutele reali per chi affitta a lungo termine: garanzie pubbliche, assicurazioni, procedure snelle.
Se non interveniamo subito, nei prossimi anni assisteremo a una trasformazione irreversibile. Città splendide, ma sempre più vuote; centri storici che sopravvivono solo per tre giorni alla settimana; quartieri identici ad altri quartieri nel mondo, privi delle comunità che li hanno resi unici.
L’italianità che consideriamo il nostro bene più prezioso si sgretola non per colpa del turismo ma per l’assenza di un modello che sappia metterlo in equilibrio con il diritto all’abitare. Non è una battaglia contro qualcuno, è una responsabilità collettiva. E ora dipende da noi decidere se vogliamo città che funzionano per chi resta o città che funzionano soltanto per chi passa.
Imprenditore e CEO di Visit Italy, piattaforma culturale indipendente che racconta l’Italia lontano dai riflettori. Da anni lavora nel marketing territoriale, accompagnando destinazioni e comunità a costruire nuove narrazioni. È stato intervistato da BBC, CNN e Skift come una delle voci italiane più autorevoli sul turismo. Nel tempo libero coltiva la passione per l’arte, le due ruote e l’esplorazione dei luoghi più affascinanti del mondo.