“Storie di vita con EGPA”: quando i pazienti diventano motore del cambiamento

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Francesca R. Torracca (APACS): “In Italia ci sono 20 sanità diverse, per questo la nostra voce deve arrivare più lontano”

Quando la malattia è rara, la voce dei pazienti diventa necessaria. È questo il messaggio che attraversa “Storie di vita con EGPA”, il Libro Bianco dedicato alla granulomatosi eosinofilica con poliangioite, una patologia complessa e spesso misconosciuta che in Italia colpisce poche persone, ma con un impatto profondo sulla loro vita e la loro quotidianità. Presentato a Verona, non nasce come semplice fotografia clinica, ma è un vero manifesto di advocacy costruito insieme a pazienti, clinici e istituzioni, con l’obiettivo di ridisegnare un sistema di presa in carico più equo, tempestivo e umano.

Tra le pagine emergono ritardi diagnostici ancora troppo frequenti, la mancanza di percorsi condivisi e l’assenza di criteri nazionali per i centri di riferimento. Ma anche la forza di una comunità che chiede ascolto e chiede soprattutto azioni: dalla definizione di PDTA omogenei su tutto il territorio, al riconoscimento di un codice di invalidità adeguato, fino a una presa in carico multidisciplinare che tenga conto della natura multisistemica della malattia.

APACS, l’associazione che ha guidato questo lavoro, è nata proprio per colmare un vuoto, quello della solitudine che accompagna molti pazienti con EGPA. Oggi, grazie al suo impegno e al contributo di numerose società scientifiche e rappresentanti istituzionali, il Libro Bianco diventa uno strumento operativo per orientare politiche sanitarie e scelte cliniche. Un modello di co-creazione che mostra come il cambiamento, quando parte dalle storie di chi vive la malattia, possa diventare possibile.

Ne parliamo con Francesca R. Torracca, presidente di APACS, per capire quanto questo documento possa incidere realmente sul futuro dei pazienti e quali passi concreti siano ancora necessari.

Se il ritardo diagnostico è legato alla rarità, quali miglioramenti, clinici o culturali, potrebbero favorire una diagnosi più tempestiva?

Il ritardo diagnostico è insito nel fatto che si tratta di una patologia rara, soprattutto perché i sintomi di esordio sono sovrapponibili a forme molto comuni di malattia. In genere, anche anni prima della fase acuta, iniziano a svilupparsi eosinofilia, asma, poliposi nasale, quadri clinici spesso legati a malattie respiratorie comuni, all’allergia. Quindi, non essendoci un biomarker vero e proprio, al di là di quella che si chiama la “marcia eosinofila”, cioè l’aumento esponenziale dei globuli bianchi eosinofili nel sangue, è difficile pensare a questa patologia. Negli ultimi anni, però, da quando sono disponibili i farmaci biologici per l’asma grave, molti pazienti con EGPA potrebbero e dovrebbero essere inquadrati come ‘sospetti’ e monitorati da centri clinici ospedalieri che seguono l’asma grave e che quindi sarebbero in grado di riconoscere un eventuale sviluppo della patologia. In parte questo sta avvenendo, perché grazie proprio a questi farmaci è stato investito molto, da parte delle aziende farmaceutiche ma anche dall’associazione e dai ricercatori, nell’informare su questa patologia. Soprattutto, c’è una grande disparità tra le regioni, e quindi tra i centri di riferimento, nelle skills e nello staff multidisciplinare necessario per sospettare e diagnosticare questa patologia per tempo. Questo è uno dei punti chiave che, come associazione, abbiamo sempre perseguito. Perché, se è vero che da quando siamo nati, nel 2017, le cose sono cambiate in meglio, anche grazie al lavoro di sensibilizzazione insieme al nostro board scientifico, è anche vero che purtroppo in Italia ci sono 20 sanità diverse. L’accesso alle cure è quindi molto diverso da regione a regione e c’è un grosso gap soprattutto tra le regioni del centro-nord e quelle del sud”.

La presa in carico multidisciplinare è essenziale ma ancora poco applicata. Qual è oggi il principale ostacolo organizzativo da superare? 

“C’è da un lato una problematica organizzativa, perché come sappiamo le risorse nella sanità sono sempre di meno e, per i medici, trovare spazi per organizzare questi incontri multidisciplinari – non dico in presenza del paziente, ma affinché un paziente sia preso in carico da tutte le discipline all’interno del suo stesso centro – è sicuramente complesso. Servono risorse che probabilmente, in questo momento, non ci sono. Poi però c’è anche un discorso culturale, perché la medicina è diventata ultra-specialistica. Uno dei motivi per cui spesso la diagnosi tarda ad arrivare è che ogni specialista guarda il suo pezzettino, il naso, il polmone, la parestesia, senza collocarlo in una relazione più ampia, cioè nel quadro generale delle problematiche del paziente. Ci si concentra sullo specifico senza tenere conto dell’insieme e questo non aiuta a comprendere, sospettare e verificare la presenza della malattia. C’è quindi sia un problema di paradigma culturale, sia un problema organizzativo. Un’altra questione è l’assenza di PDTA specifici riguardo alla malattia. Nel senso che c’è un PDTA in Lombardia, c’è nel Lazio e a breve in Emilia-Romagna, ma non esiste un percorso codificato uguale e condiviso per tutte le regioni. In assenza di ciò, è difficile arrivare a una corretta diagnosi e, a volte, dopo la diagnosi, a una corretta presa in carico del paziente. Infatti, sono molti i pazienti che hanno la diagnosi ma faticano a farsi seguire adeguatamente”.

Esiste un codice per l’invalidità?

“Abbiamo un codice di patologia, quindi le esenzioni per le prestazioni riguardanti la malattia, ma non esiste un codice di invalidità. Attualmente, è possibile fare richiesta per l’invalidità civile, ma la percentuale è attribuita in base al sintomo prevalente. Ciò significa che, se una persona ha un’asma grave come sintomo predominante, è riconosciuta l’invalidità in base a quello. In realtà non esiste neanche una percentuale minima legata alla presenza della malattia, che comunque è cronica e richiede l’utilizzo costante di farmaci con aspetti anche invalidanti. Ci sono persone che hanno preso per anni cortisone, immunosoppressori, ecc., terapie che hanno un impatto significativo sulla qualità di vita. Non è, quindi, una malattia riconosciuta nemmeno, ad esempio, per ottenere la 104 e quindi i permessi retribuiti per effettuare visite e controlli. Questo è un tema molto caldo per i nostri pazienti ed è una difficoltà che ogni giorno ci troviamo ad affrontare”.

La malattia ha un forte impatto psicologico e sociale. Che cosa fate come associazione per rispondere a questo bisogno?

“L’attività principale – che si è intensificata perché la nostra sfera di competenze e di conoscenze degli altri stakeholder si è molto ampliata negli ultimi anni – è sostenere una sensibilizzazione su questa malattia a livello italiano ed europeo. Noi, infatti, facciamo parte degli European GPA Study Group e quindi abbiamo realizzato diverse survey proprio sulla qualità di vita e sull’isolamento dei pazienti, che abbiamo portato all’attenzione sia delle istituzioni sia della comunità medico-scientifica. Poi portiamo avanti diversi progetti per sostenere anche la salute psichica dei pazienti e dei caregiver. In particolare, a parte l’assistenza quotidiana, abbiamo diversi programmi di sostegno psicologico. In questo momento stiamo promuovendo una campagna di Natale che si chiama “Un abbraccio sospeso”, nella quale stiamo raccogliendo fondi per avviare tre progetti di sostegno psicologico. Ogni anno realizziamo anche un percorso di coaching di gruppo con una psicologa, che aiuta i pazienti ma anche i caregiver a metabolizzare la realtà di avere questa patologia e a trovare un sostegno per affrontare con una diversa prospettiva il fatto di essere malati. Per cambiare un po’ il punto di vista, dal compiangersi ad affrontare la situazione in modo più positivo e propositivo. C’è anche un percorso di yoga respiratorio per aiutare i pazienti ad avere maggiore consapevolezza del loro respiro e a migliorare la qualità del respiro stesso e un programma di scrittura pedagogica, per insegnare a mettere nero su bianco le proprie emozioni e cercare di accettare un po’ meglio la propria condizione. Inoltre, tutti gli anni organizziamo diversi webinar sia con i medici, sia fra noi, ma anche un congresso medici-pazienti itinerante, che cambia città, durante il quale abbiamo la possibilità di stare tutti insieme, ascoltare gli avanzamenti della ricerca scientifica e confrontarci con i medici del nostro board scientifico. È un momento molto importante per i pazienti. Infine, partecipiamo a diverse attività come tavole rotonde, eventi medici o congressi delle società scientifiche, per fare sempre più una “class action”, per far sentire la nostra voce”.

Perché il Libro Bianco e qual è il suo l’obiettivo?

“Il Libro Bianco è un progetto che avevamo nel cassetto da diverso tempo e che, grazie al supporto di GSK, siamo riusciti a realizzare, anche in maniera molto bella, grazie ai disegni di un’illustratrice molto nota, che ha saputo con sensibilità mettere nero su bianco, oltre alle parole, le sensazioni che provano le persone con EGPA. L’obiettivo era raccontare il punto di vista di tutti gli stakeholder coinvolti nell’EGPA, quindi i pazienti, sì, ma anche i caregiver, l’associazione, i medici, i vari specialisti e le istituzioni che hanno accettato di contribuire. Credo che sia un ottimo strumento per capire un po’ meglio la malattia e tutto il microcosmo che ne fa parte. Il prossimo passo, infatti, è cercare di portarlo più in alto, alle istituzioni, per far conoscere meglio le nostre istanze. È nato anche per ricordare una cara amica, una delle fondatrici della nostra associazione, che è venuta a mancare all’età di 35 anni proprio per una diagnosi tardiva e quindi per una mancata presa in carico”.

Recapiti
info@osservatoriomalattierare.it (Ivana Barberini)