Workout Magazine - Studio Chiesa communication
Bisogna comprare l’ombrello quando c’è il sole
Le grandi storie dell’heritage: Workout magazine incontra Massimiliano Cacciavillani, CEO di Lovato Electric S.p.A.
Che poi significa, in parole povere, che «è quando le cose vanno bene che devi costruire un’impresa in grado di resistere nei momenti difficili. Perché quelli prima o poi arrivano sempre, che a monte ci sia una guerra, una pandemia o altro, non si sfugge a questa ineluttabilità e se ti muovi solo in quel momento sarà tardi, non riuscirai a cambiare prodotti o parco macchine o anche mentalità e cultura aziendali in un pugno di mesi». Chi parla è Massimiliano Cacciavillani, CEO di Lovato Electric S.p.A., realtà più che centenaria – è stata fondata nel 1922 – di Gorle, paese a un tiro di schioppo da Bergamo. La frase di cui sopra però non è sua, anche se lui ama ripeterla spesso, il copyright, si potrebbe dire, è del padre Pietro, oggi Presidente dell’azienda. Che di crisi nella sua storia longeva ne ha vissute almeno due, di segno diverso, che avrebbero potuto avere effetti catastrofici se non ci fosse stata una reazione veloce, anzi di più, psicologicamente «attesa»: la prima nel 2008-2009, per intenderci quella seguita al fallimento dell’americana Lehman Brothers sommersa dai mutui subprime, la seconda legata alla pandemia di Covid nel 2020 che ha visto proprio nella Bergamasca una delle aree italiane più tragicamente colpite. Entrambe sono state raccontate nella monografia d’impresa Un secolo di storia imprenditoriale e di passione, nelle cui pagine si alternano le voci di Pietro e Massimiliano Cacciavillani: riguardo alla crisi economica globale che dagli Stati Uniti si propagò come uno tsunami al mondo intero, si legge che «nel giro di un mese il nostro fatturato mensile calò di oltre il 40%. Fu un vero shock per tutti, una cosa mai vista […]. Mantenemmo i nervi saldi, riducemmo alcune spese e decidemmo di continuare a sviluppare nuovi prodotti». Durante il periodo del lockdown la scelta fu invece quella di privilegiare il più possibile lo smartworking e di instaurare rigide regole di sicurezza per chi al contrario aveva deciso «di venire a lavorare comunque, nonostante la paura, l’incertezza. […]. Questo ci ha permesso di limitare il calo di fatturato nel 2020 a un -2%». In entrambi i casi non si fece ricorso nemmeno a un’ora di cassa integrazione, punto di orgoglio per Massimiliano che rimarca: «La molla che mi fa venire qui tutti i giorni non è il profitto, anche se guadagnare è importante e per quanto ci riguarda abbiamo dati di bilancio eccellenti. No, il mio obiettivo numero uno è creare posti di lavoro sul territorio, quello numero due è proprio portare avanti un’azienda che, se si dovesse verificare una nuova crisi, anche di quelle pesanti, non lasci a casa nessuno».
Crisi che al momento non sembra profilarsi: «Il nostro settore, quello elettrico, è destinato ad ampliarsi, è un filone positivo. Ho amici che operano nel campo dei componenti per motori diesel e certamente loro hanno molte più preoccupazioni di me riguardo alle dimensioni del loro mercato tra, diciamo, dieci anni, io invece ho una ragionevole certezza che il mio, di mercato, sarà più grande. In più nel nostro campo la concorrenza, anche se molto elevata e di altissimo livello, è di quelle giuste, leali».
Non abbiamo ancora detto di che cosa si occupa Lovato Electric, abbiamo solo seminato indizi. «Produciamo componenti elettrici in bassa tensione per applicazioni industriali. – spiega Massimiliano – Il nostro cliente tipo, che in questo caso è quello “storico”, costruisce macchinari come compressori, forni industriali, saldatrici, imballatrici, macchine per la lavorazione del legno, della plastica o dei metalli. L’altra tipologia di clientela è invece coinvolta in processi produttivi – può essere per esempio un cementificio – e cerca un efficientamento energetico, banalmente per limitare gli effetti dei rincari dell’energia. Quest’ultimo settore è in fase di crescita perché se una volta l’ammontare della bolletta preoccupava solo chi l’aveva da un milione di euro, oggi il problema investe anche chi ci spende 80.000 euro. A maggior ragione se ha intrapreso un percorso di sostenibilità». È un’azienda che vanta un fatturato consolidato a doppia cifra – 152 milioni di euro –, dà lavoro a circa 700 persone di cui 356 solo in Italia, possiede 14 filiali estere due delle quali, in Cechia e in Croazia, produttive e le altre commerciali, e 90 importatori che garantiscono la reperibilità dei suoi prodotti in oltre 100 Paesi nel mondo.
Una tensione all’internazionalizzazione iniziata molto presto, ben prima che la saturazione del mercato spingesse le imprese italiane oltralpe e oltreoceano: «I primi Paesi verso i quali abbiamo cominciato a esportare sono stati, all’inizio degli anni Sessanta, Polonia, Ungheria e Brasile, l’apertura della prima filiale, in Venezuela, data 1979 anche se dopo un paio di decenni abbiamo deciso di chiuderla perché la situazione sociale in quel Paese era diventata esplosiva e pericolosissima». Gli aneddoti a quest’ultimo riguardo si sprecano, uno potrebbe entrare a buon diritto in una fiction: Lovato Electric aveva creato la filiale – in joint venture – nella città di Valencia, che è uno dei principali centri industriali del Paese. Bene, in occasione di una trasferta di Massimiliano alla loro sede venezuelana, non solo il socio si era rifiutato di andare a prenderlo in aeroporto perché muoversi la sera era troppo rischioso, ma l’autista inviato in sua vece, per tutto il viaggio fino all’hotel aveva tenuto un grosso revolver in bella vista sul cruscotto. Così «quando mi chiesero di tornarci un’ennesima volta, mi sono rifiutato decisamente». La narrazione della storia dell’azienda è ricca di questi episodi – non tutti così rocamboleschi a dire la verità – e uno in particolare fa ben comprendere le motivazioni della decisione di guardare al di là dei confini nazionali: «Tra i nostri contatti c’era un imprenditore che realizzava macchine per il packaging e che esportava parecchio negli Stati Uniti. I nostri prodotti lo interessavano: non eccepiva né sulla qualità, né sul prezzo, ma purtroppo c’era un «ma», noi all’epoca non avremmo potuto garantire la reperibilità dei ricambi e l’assistenza sul suolo americano. Bisogna ricordarsi che a quei tempi la logistica non era sviluppata come oggi né la comunicazione così rapida, nel migliore dei casi un pezzo avrebbe impiegato qualche giorno a giungere a destinazione. È stato un po’ quello il pensiero che ha spinto mio padre a prendere la valigia in mano già sessant’anni fa, in caso contrario certi contratti non li avremmo spuntati. Potrei dire che la nostra fortuna è aver avuto clienti esportatori che ci hanno stimolato in tal senso». Per inciso oggi la filiale americana è la più importante nel «regno» Lovato Electric: si trova in Virginia a Cheasepeake e supporta il mercato statunitense attraverso una rete di distributori partner.
In questi casi viene sempre spontaneo chiedersi e chiedere «la ricetta» per riuscire a «tenere insieme» tante culture, anche di business, così diverse tra loro, che spaziano dagli USA alla Cina passando dalla Turchia e dalla Russia, ma Massimiliano afferma di non avere mai avuto problemi: «Sarà che siamo italiani – sorride – e siamo perciò capaci di andare d’accordo un po’ con tutti. Certo occorre un po’ di flessibilità e di attitudine ad adattarsi alle consuetudini di un altro Paese. Per fare un esempio: io normalmente non prendo in considerazione candidati che cambiano spesso azienda, non sono proprio abituato, qui a Gorle per esempio abbiamo avuto una persona che è andata in pensione dopo 43 anni trascorsi interamente in Lovato Electric. Cambierà prima o poi anche in Italia, ma al momento di gente che lavora da noi da più di vent’anni ce ne è ancora tanta. Però negli Stati Uniti questa non è la consuetudine, là la fedeltà aziendale non è importante come da noi e bisogna accettarlo. D’altro canto il nostro è un settore B2B nel quale chi compra ha un approccio simile in tutto il mondo, vuole vedere certificati, conoscere dati, controllare caratteristiche, vuole poter testare, bisogna convincere l’Ufficio Acquisti, l’Ufficio Tecnico, l’Ufficio Qualità e alla fine anche il titolare, e non cambia molto da Paese a Paese. Ecco, se vogliamo trovare una differenza, diciamo che in mercati più strutturati, come quello tedesco, magari impieghi anche un paio di anni a entrare mentre in altri più giovani, come la Turchia, in capo a pochi mesi hai già cominciato le forniture, ma questo è tutto. E noi, ripeto, siamo molto bravi ad adattarci».
E pensare che all’origine, in un’epoca storica in cui il mondo femminile era per lo più relegato tra le quattro mura domestiche, c’è una donna: ci guarda da una foto degli inizi del secolo scorso, vestita di nero come era consuetudine nella vedovanza, lo sguardo franco e non impostato come invece spesso si vede nei ritratti fotografici d’antan, un lieve sorriso che le increspa appena il volto. Si chiamava Maria Faccio, da Arzignano (in provincia di Vicenza) dove era nata nel 1877: «una tipa tosta», come la definisce Massimiliano, «una donna imponente, dall’aria austera, dotata di un forte personalità» come scriverà Pietro Cacciavillani. Maria nel 1922 aveva fondato con un cugino, che di cognome faceva Lovato e un altro socio, una piccola ditta di componenti elettrici nel centro di Bergamo. Un’emigrata, dunque, che inseguiva un progetto: occuparsi di sericultura. E la Bergamasca di quei tempi era particolarmente adatta all’allevamento dei bachi da seta grazie alla sua ricchezza di acque e gelsi. Poi evidentemente qualcosa le aveva fatto cambiare idea orientandola verso l’elettricità. Non aveva una preparazione tecnica, ma era «l’anima dell’impresa» che, grazie all’esperienza meccanica del cugino e alla scrupolosità contabile del socio aveva prosperato al punto da diventare fornitrice delle maggiori aziende locali di allora, tra cui le Cartiere Pigna, le Fornaci Magnetti, il birrificio Von Wunster, la Cesalpinia che produceva addensanti. Poi il cugino venne a mancare e Maria, che non era più una ragazzina, dovette porsi il problema della successione. Era vedova, come già detto, e senza figli, ma con un nipote, figlio della sorella Luigia, che le sembrava sveglio e capace: Massimiliano Cacciavillani, il nonno dell’attuale CEO che ne porta il nome.
Quando Maria Faccio muore, nel 1946, Massimiliano le subentra: ha già 38 anni, ma per almeno un ventennio ha affiancato la zia nella gestione dell’azienda, non sta entrando in una terra incognita. Il Massimiliano di oggi ha solo un vago ricordo del nonno perché alla sua scomparsa era piccolissimo, ma si può dire che lo conosca bene attraverso le parole del padre: «dai suoi racconti si capisce che avevano un rapporto stretto e molto intenso. Me l’ha sempre descritto come una persona autorevole e appassionata senza però che questa passione l’abbia mai portato a trascendere, anche solo verbalmente. Era un uomo brillante, di compagnia, gran lavoratore, un meccanico nato, con un istinto infallibile nel giudicare le persone, un imprenditore che ha vissuto la «sua» azienda in modo quasi viscerale, viveva proprio qua, dietro l’officina c’era l’abitazione che abbiamo ristrutturato in tempi recenti». Grande amante delle moto – soprattutto delle Guzzi al punto che durante la guerra, nel timore che la sua venisse requisita, l’aveva smontata completamente nascondendone poi i pezzi in giro per la casa – e di automobili, del cui parcheggio nel garage della ditta si occupava Pietro. E aveva ben assimilato le qualità imprenditoriali della zia, sapeva che l’imperativo categorico era stare al passo dei tempi e difatti già nel 19