Il virus della peste suina africana si diffonde tra i cinghiali, ma può anche entrare negli allevamenti (non colpisce l’uomo): fino a oggi, 130mila maiali in Italia sono stati abbattuti in seguito a focolai.
La trave nel piatto è che rischiamo di buttare il bambino con l’acqua sporca. Nello specifico, è a rischio proprio quell’allevamento di piccola scala che spesso garantisce la salvaguardia di razze suine autoctone allevate secondo il modello estensivo, che si fonda sul rispetto della terra, delle risorse naturali, degli animali e delle comunità.
In Italia abbiamo otto razze tradizionali registrate, delle quali quattro sono Presìdi Slow Food (Suino Nero dei Nebrodi, Suino Sardo, Mora Romagnola, Suino Nero Pugliese): sono popolazioni che contano poche migliaia di capi ciascuna. Ogni razza è custodita da poche decine di allevatori, spesso anche meno. Un patrimonio di biodiversità prezioso e fragile conservato proprio grazie alla determinazione di questi allevatori che devono essere considerati anche custodi di biodiversità.
Il paradosso è che l’aumento delle epidemie – come la peste suina africana – è correlato alla diminuzione della biodiversità causata dall’omologazione genetica propria degli allevamenti industriali intensivi, oltre che da deforestazione, consumo di suolo e dall’intensificazione agricola, vale a dire tutto ciò che aumenta la possibilità di contatti tra la fauna selvatica e gli animali allevati.
Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia
L’articolo completo è disponibile dal pomeriggio di martedì 29 aprile
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